La notizia della morte, in una prigione siberiana, dell’oppositore russo Alexei Navalny è arrivata il 16 febbraio, proprio mentre si svolgeva la prima seduta della Conferenza internazionale per la sicurezza a Monaco di Baviera. I sostenitori di nuovi aiuti militari e finanziari all’Ucraina, contro l’ “autocrazia” di Putin hanno così ricevuto un insperato sostegno alle loro argomentazioni. La presa della cittadina di Avdiivka da parte delle truppe russe, resa ufficiale più o meno negli stessi giorni della Conferenza, ha, da un lato, rafforzato ulteriormente l’argomentazione di chi vuole continuare ad alimentare la macchina militare ucraina, ma, dall’altro, ha reso anche evidente che le speranze di una “vittoria” per Zelensky si allontanano e questo fatto dà ossigeno ai fautori delle trattative con Putin sia in America che nell’UE.
Per quanto le guerre e tutta la politica nell’epoca del capitalismo siano mosse da interessi economici, si sa che c’è bisogno di miti, simboli e bandiere perché ogni governo possa legare a sé la propria opinione pubblica. Il momento, quindi, esige che Navalny diventi un martire della libertà, sorvolando allegramente sui suoi trascorsi xenofobi e nazionalisti di sostenitore di una “pulizia etnica” che deportasse gli immigrati caucasici fuori dalla Russia per mantenere la purezza dell’etnia slava.
Riarmarsi è il denominatore comune
Al di là della sorte di Navalny, che in ogni caso è un vero omicidio di Stato, e anche al di là delle varie posizioni che si sono confrontate a Monaco a proposito del conflitto russo-ucraino, resta che la “necessità” di armarsi, e armarsi bene è un tema politico comune a tutti i paesi. In Europa, e in Italia particolarmente, ormai tutti i politici e gli “esperti” a vario titolo ripetono più o meno il ritornello sull’urgenza di una Difesa europea che la “minaccia russa” avrebbe dimostrato necessaria. Una difesa che non sarebbe più garantita, come un tempo, dagli Stati Uniti. Sul terreno comune del riarmo, le varie fazioni politiche si scontrano su quanto si debba spendere per le Forze armate, quanto si debba investire nell’industria bellica, e così via. Succede anche che in questa sorta di fronte unico ci sia chi lancia l’allarme sull’indebolimento del sistema di difesa nazionale proprio in seguito al flusso di armi destinato all’Ucraina.
Il tono di certi giornalisti ricorda molto quello degli intellettuali interventisti del 1914 occupati a punzecchiare i partiti politici di governo e d’opposizione, perché troppo molli, troppo inconcludenti troppo “panciafichisti”. Un esempio fra tanti, l’articolo pubblicato sul giornale online Linkiesta, firmato da Amadeo La Mattina col titolo significativo “L’inconsistenza della politica italiana dopo le deliranti parole di Trump sulla Russia”. L’autore accusa il governo e le forze politiche d’opposizione di troppa prudenza nei confronti delle note esternazioni di Trump che, con il suo solito stile provocatorio e paradossale, ha trattato da delinquenti tutti i governi dei paesi della Nato che non si sono adeguati alle percentuali di Pil previste dal Trattato per le spese militari e ha praticamente invitato Putin ad approfittare di questa debolezza
Gli “interventisti” dei nostri tempi
La timidezza dei politici nasconde la paura del risultato delle presidenziali americane, cioè il rischio di dover avere a che fare di nuovo con Trump, eventualità che consiglia di non criticarlo troppo ora, dati i rapporti di forte subalternità che caratterizzano l’Italia nei confronti degli Stati Uniti. “Ecco, - scrive La Mattina - vediamo come reagiranno i leader delle Cancellerie. Per quanto ci riguarda, non possiamo farci grandi illusioni su Schlein e Meloni che, per motivi diversi, non hanno la forza e il coraggio – nonché le risorse, per quanto riguarda il governo – di affrontare un vero e reale problema di sicurezza nazionale e continentale. La premier, in particolare, rischia di rimanere nel limbo ambiguo tra il passato trumpiano, l’esempio polacco (nel 2024 la spesa per la difesa supererà i centotredici miliardi di zloty polacchi, venticinque miliardi di euro, circa il tre per cento del Pil) e l’ambizione europeista”.
In sintesi, diciamo noi, il quadro è questo: la corsa agli armamenti di tutti gli Stati è iniziata da tempo e continua spedita. Il confronto tra i partiti della politica ufficiale, cioè quella dei sostenitori dell’ordine sociale capitalistico, dà ormai per scontata la “necessità” di nuove e più potenti armi per “difendersi” e per “avere un ruolo” nella politica internazionale. Le divisioni sono su quanto spendere, quante armi inviare all’Ucraina o a Israele, quanto incrementare l’industria di guerra, come accelerare sull’integrazione europea della produzione bellica e così via. Tutti hanno messo l’elmetto in testa. Intellettuali e giornalisti italiani recitano la parte di quelli che pungolano un establishment paralizzato da convenzioni, legami burocratici, scarso idealismo e pregiudizi “pacifisti”. Come i D’Annunzio, i Marinetti, i Corridoni del 1914 parlano la lingua delle armi e dei “grandi ideali”. A differenza di quelli, però, non hanno nessuna intenzione di rischiare la propria pelle. Appoggiano entusiasti l’Ucraina di Zelensky contro l’”imperialismo russo” e ci spiegano che le centinaia di migliaia di giovani ucraini uccisi o mutilati in guerra sono il prezzo che “dobbiamo” pagare per la difesa della democrazia anche in casa nostra. Sono pronti a dire, domani, ai giovani italiani di andare a farsi ammazzare per lo stesso motivo o per un altro “ideale” pescato per l’occasione.
Intanto le imprese che producono gli attrezzi per i macelli di massa vedono i loro profitti arrivare alle stelle e attraverso le “porte girevoli” del capitalismo italiano, si rappacificano gli esponenti della destra e della sinistra proprio, guarda caso, nell’orbita dell’industria bellica. Così avviene nel circuito “culturale” sponsorizzato da quella Leonardo, il cui amministratore delegato, nominato dalla Meloni, è l’ex ministro della Transizione ecologica del governo Draghi, in quota Cinque Stelle, Roberto Cingolani. Presiede una delle fondazioni della Leonardo, Marco Minniti, PD, ex ministro degli interni del governo Gentiloni, mentre l’altra fondazione, “Civiltà delle macchine” è presieduta da Luciano Violante, anche lui PD ed ex presidente della Camera e tra i collaboratori ci sono due dei rari intellettuali di centrodestra: Pietrangelo Buttafuoco e Alessandro Giuli. Un piccolo saggio di quel “blocco sociale” per cui garantirsi una bella vita all’ombra della produzione e della vendita di strumenti di morte coincide stranamente con la “difesa della democrazia”.
R. Corsini