Nel luglio del 1917, una delegazione del governo provvisorio russo, nato dalla rivoluzione democratico-borghese del febbraio, fu inviata in Italia per sostenere, con argomenti “rivoluzionari”, la necessità di continuare la guerra a fianco degli altri paesi dell’Intesa. Giovanni Germanetto, un socialista che, quattro anni dopo, aderirà al Partito comunista al momento della sua fondazione, scrive nelle sue memorie:
“L’arrivo a Torino di Goldenberg e Smirnov, delegati del governo provvisorio russo, suscitò un enorme entusiasmo e provocò delle grandiose dimostrazioni. I delegati dovettero parlare dal balcone, perché era impossibile, nei saloni della Camera del lavoro, contenere l’enorme fiumana di lavoratori. Era il primo comizio che si teneva dopo la scoppio della guerra. Goldenberg e Smirnov ebbero però la sorpresa di udire la grande massa operaia inneggiare a Lenin e ai bolscevichi”.
Le scene di Torino si ripeterono in tutte le altre città comprese nel tour dei delegati russi. Un altro commento dell’epoca, importante per capire fino a che punto Lenin era già divenuto il simbolo di una prospettiva concretamente rivoluzionaria, è quello di un giovane anarchico, Camillo Berneri, che scrisse sulle colonne della Guerra di classe, organo dell’Unione sindacale, un articolo intitolato nel modo più azzeccato, “Con Kerenski o con Lenin?”. Dalle parole di Berneri, scritte a caldo, si capisce come questa scelta coinvolgesse il gruppo dirigente del Partito socialista che, con Treves e Turati, manteneva una posizione ambigua o di cedimento aperto ai richiami “patriottici” del governo italiano e dell’Intesa, mentre, con Serrati e l’Avanti!, una linea apertamente ostile alla guerra e favorevole all’ulteriore sviluppo della rivoluzione russa nel senso dell’abbattimento del capitalismo.
Le reazioni della folla dei partecipanti ai comizi è descritta da Berneri in questi termini: “Le masse sono state sincere e logiche, nel loro intuito, affermando in molteplici comizi, il loro estremismo col grido di: Viva Lenin! Il grido s’è ripetuto, ha seguito i delegati del Soviet, è stato una parola d’ordine, una generale, semplice, entusiasta risposta, ed anche una protesta, ai discorsi dei socialisti russi”. Molto al di sotto delle valutazioni di Berneri furono quelle del giovane Antonio Gramsci che, in un articolo pubblicato dal Grido del popolo, scriveva che “Lenin è il maestro di vita, il risvegliatore delle anime dormienti” mentre Cernov, capo del Partito socialista rivoluzionario (i “socialisti rivoluzionari” erano in realtà un partito democratico piccolo-borghese, continuatore del populismo contadino e avevano poco a che spartire col socialismo marxista), avrebbe guidato il proletariato russo al potere.
Abbasso la guerra, viva Lenin!
Ma da quanto tempo era conosciuto Lenin prima della Rivoluzione d’ottobre? Che cosa ne sapevano i lavoratori italiani? Diciamo che in gran parte, la popolarizzazione del nome di Lenin si deve al governo e allo stato maggiore italiano che, a partire dal marzo 1917, fecero del movimento rivoluzionario russo un bersaglio delle loro invettive, ricorrendo tra l’altro ai “giornali di trincea”. Dopo la presa del potere da parte del proletariato e la liquidazione del governo “socialista” di Kerensky, la propaganda divenne naturalmente più insistente, dato che ora in Russia si era instaurato un governo che aveva dichiarato la pace.
Naturalmente tutti i partiti di governo, in accordo con tutti i governi dell’Intesa, accusarono Lenin di aver tradito l’alleanza e di essere un agente dei tedeschi. In una seduta del Parlamento, nel dicembre 1917, un deputato del partito radicale, Luigi Gasparotto, riferì che un reggimento italiano in ritirata, lasciò su un muro una scritta destinata agli austriaci che stavano sopraggiungendo: “Ringraziate i leninisti italiani”. Leninista era già diventato sinonimo di disfattista, traditore, nemico della patria. Ma più aumentavano le invettive del governo e dei suoi sostenitori interventisti, degli ufficiali e de borghesi, più aumentava tra gli operai e i contadini, condannati a condurre una vita da bestie nelle trincee, la simpatia per questo misterioso personaggio russo, per i bolscevichi e per la rivoluzione. Lo storico Stefano Caretti, ne “La rivoluzione russa e il socialismo italiano” riporta una piccola frase di una donna che scrive a suo marito, prigioniero di guerra in Germania, verso la metà del 1918: “La mamma e il piccolo Lenin stan bene”. Difficile trovare una prova più chiara di quanto fosse amato Lenin già a quella data.
Per motivi non troppo diversi, il nome di Lenin conquistò le masse operaie rimaste a lavorare nelle industrie, sottoposte anche loro alla disciplina militare per salari da fame.
Nei suoi “Ricordi di un operaio torinese”, Mario Montagnana scrive: “Quasi tutti noi socialisti, e con noi la grande maggioranza degli operai, eravamo, comunque, con Lenin e con i bolscevichi.
Non conoscevamo le loro dottrine, la loro ideologia. Avevamo letto il loro nome in occasione della Conferenza di Zimmerwald e di Kienthal e sapevamo che essi avevano assunto una posizione di estrema sinistra, ma niente più.
Eravamo con loro, ad ogni modo, perché essi erano contro la continuazione della guerra e, forse, più ancora perché erano attaccati, insultati da tutti i guerrafondai, da tutti i borghesi d’Italia. Se i nostri nemici si scagliavano contro di essi con tanta violenza, ciò voleva dire che Lenin e i bolscevichi avevano ragione, ch’essi difendevano la classe operaia e il socialismo”
I socialisti italiani e Lenin
Nel movimento socialista italiano, infatti, i primi importanti e diretti contatti con Lenin risalgono alle conferenze di Zimmerwald e Kienthal. In queste due località svizzere si tennero degli incontri, successivamente battezzati un po’ pomposamente “Conferenze”, tra socialisti di vari paesi. Univa i delegati presenti l’opposizione alla guerra insieme al rifiuto di appoggiare i propri governi nella conduzione di questo macello. La conferenza di Zimmerwald si svolse dal 5 all’8 settembre 1915. Nonostante le forti differenze tra i bolscevichi e la maggioranza degli altri delegati, fu sottoscritto da tutti un manifesto, scritto da Trotsky e dallo svizzero Grimm, che sarebbe poi stato diffuso in tutti i paesi belligeranti. Per l’Italia firmarono Modigliani e Lazzari. In quell’occasione, Serrati, direttore dell’Avanti!, ebbe la possibilità di parlare con Lenin.
Tornato in Italia, Serrati cominciò a rendere popolari Lenin e i bolscevichi sul giornale che dirigeva, con articoli che venivano in gran parte “sbianchettati” dalla censura.
Nella conferenza di Kienthal, Serrati fu l’unico italiano a sottoscrivere il Programma di pace internazionale scritto da Lenin, nel quale si chiedeva ai proletari che stavano uccidendosi tra loro nei fronti di guerra di “volgere le armi solo contro il comune nemico - i governi capitalisti”.
Con la Rivoluzione d’ottobre tutto subisce un’accelerazione e all’interno del PSI si raggruppano, contro l’ala riformista capeggiata da Turati, tutti i militanti che si identificano con Lenin e il partito bolscevico. La lotta interna al PSI si fa anche nel nome di Lenin, come accadde al congresso di Bologna del 1919.
Mussolini, già poche settimane dopo la fondazione dei Fasci di combattimento, intervistato sui disordini che avevano portato, a Milano, alla distruzione della sede dell’Avanti!, si esprimeva in questi termini sull’episodio: “Tutto quello che avvenne all’Avanti fu spontaneo movimento di combattenti e di popolo stufi del ricatto leninista”. Fattosi interprete delle più profonde paure della borghesia italiana, il capo del fascismo si mise subito in mostra come l’uomo “di polso” che, con il suo movimento, aveva chiaramente individuato il nemico numero uno dell’ordine capitalista.
“Lodateci di meno e studiateci di più”
La popolarità di Lenin e dei bolscevichi in Italia, però, non andò di pari passo con l’assimilazione o anche la semplice conoscenza delle loro esperienze e della loro letteratura politica da parte della grande maggioranza dei militanti socialisti. Una considerazione che vale anche per quelli che dettero vita al Partito comunista nel gennaio 1921.
Per il proletariato italiano, Lenin era il simbolo della risolutezza rivoluzionaria e della completa abnegazione per la causa del socialismo. Non per caso il vecchio anarchico Errico Malatesta era chiamato, con suo grande scorno, bisogna dire, il “Lenin d’Italia”.
Gramsci, nelle sue tesi “Per un rinnovamento del Partito socialista italiano”, scritte nell’aprile 1920, tesi respinte dal Consiglio nazionale del partito, rimprovera ai dirigenti socialisti di non curare la traduzione degli scritti di Lenin e degli altri esponenti bolscevichi, tanto che non era disponibile, per i militanti italiani, nemmeno un testo fondamentale come “Stato e rivoluzione”, uscito in Russia tre anni prima.
Lenin, l’Internazionale comunista, la battaglia dei bolscevichi nel corso dei quindici anni che vanno dalla nascita della loro corrente fino alla presa del potere, erano considerati formalmente un patrimonio politico condiviso da Serrati e da tutta la maggioranza della direzione del Partito socialista. Ma, in una fase storica nella quale i fatti si susseguivano in modo convulso era indispensabile, per tradurre in pratica l’assimilazione di questo patrimonio, rendere immediatamente accessibile alla base socialista almeno la migliore produzione pubblicistica e letteraria comunista. Anche un mese di ritardo poteva costituire un serio problema, figurarsi un anno o anche di più!
Rivolgendosi agli esponenti delle correnti estremiste del movimento comunista, pochi mesi dopo le tesi di Gramsci, Lenin scriveva: “Talvolta viene voglia di dire: lodateci di meno, penetrate di più la tattica dei bolscevichi,studiatela di più!”. Ma lo stesso testo da cui è tolta questa citazione, “L’estremismo, malattia d’infanzia del comunismo”, distribuito a tutti i delegati presenti al secondo congresso dell’Internazionale comunista a Mosca, non fu tradotto in italiano che l’anno successivo.
Non sarebbe corretto, naturalmente, imputare gli errori e le ingenuità dei massimalisti alla Serrati prima e ai dirigenti comunisti come Bordiga e Gramsci poi, semplicemente alla non sufficiente diffusione degli scritti di Lenin, Trotsky, Bukharin, ecc. Ma è certo che quella che, almeno negli anni 1919-1920, fu una vera trascuratezza “editoriale”, rivelava una grave incomprensione di quello che la lotta di classe esigeva in quel periodo che sembrava incamminarsi anche in Italia verso la rivoluzione proletaria.
Icone inoffensive
Iniziando il primo capitolo di “Stato e rivoluzione”, Lenin aveva scritto: “Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome a “consolazione” e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si svilisce”.
Assopitosi il vento delle rivoluzioni e morto Lenin, la controrivoluzione stalinista si impadronì della sua figura facendone proprio una “icona inoffensiva”. La scarsa consapevolezza del valore scientifico del pensiero di Lenin nel movimento comunista italiano, e non solo, agevolò questa operazione. Il nome di Lenin riscaldò i cuori degli operai italiani più coscienti e combattivi ancora per decenni, ma dei suoi veri insegnamenti rimase sempre meno.
Tuttavia, la necessità di comprendere l’eredità politica di Lenin, a cento anni dalla sua scomparsa, rimane. Chi si pone con serietà sul terreno della lotta al capitalismo non può muovere un passo senza aver fatte proprie le più importanti acquisizioni leniniste, dalla natura imperialista del capitalismo moderno, alle caratteristiche di un partito rivoluzionario, alla questione dello Stato e della democrazia borghese. Diversamente si è condannati a rincorrere le farfalle delle mode ideologiche o i tamburi di guerra della demagogia da politicanti borghesi.
19 gennaio 2024