Quando i prezzi aumentano, non si torna indietro. Lo sanno bene le famiglie e i lavoratorialle prese con gli aumenti a vista d'occhio che gravano sulle spese indispensabili. Ma se si parla di adeguamento dei salari, la musica cambia immediatamente: il coro unanime di politici ed economisti racconta la solita vecchia storia
Chi ha memoria, o magari è un po' più vecchio, ricorda bene la battaglia iniziata nel 1984 dall'allora Governo Craxi contro la scala mobile, accusata di sostenere l'inflazione a due cifre vigente all'epoca. La scala mobile, per chi non ne avesse ricordo, consisteva in un meccanismo che adeguava periodicamente i salari in base all'aumento dei prezzi, e aveva la funzione di sostenere il potere d'acquisto dei salari contro il carovita. Ha una storia lunga, che a partire dall'immediato dopoguerra si consolida con le lotte sindacali degli anni '60 e '70, per raggiungere il cosiddetto "punto unico di contingenza", un aumento per tutte le categorie di lavoratori calcolato secondo le variazioni di prezzo di una serie di beni di largo consumo contenuti nel cosiddetto "paniere". La storia più che quarantennale della scala mobile finisce con gli accordi del luglio 1992, in base ai quali è stata definitivamente abolita, costringendo i salari ad arrancare e i rinnovi dei contratti di lavoro a tentare di colmare un divario anziché ad alzare la quota delle retribuzioni. Prova ne è la parabola discendente dei salari, che ha subito dagli anni '90 una brusca accelerazione, affiancata negli stessi anni dall'aumento delle tipologie dei contratti di lavoro, tutti senza esclusione con l'obiettivo di aumentarne la precarietà.
Gli ultimi eventi, pandemia e scoppio della guerra in Ucraina con i conseguenti aumenti dei prezzi sia delle materie prime energetiche, sia più in generale di tutti i beni di consumo, non hanno fatto che peggiorare la condizione delle persone che vivono del loro lavoro. Che la pandemia invece sia stata prima di tutto un affare per il grande capitale, e che lo sia a tutt'oggi la guerra in Ucraina, lo dimostrano i bilanci, gonfi di profitti come pesci palla, delle multinazionali energetiche, farmaceutiche, dell'industria delle armi, della grande distribuzione e del commercio online. Lo riconosce candidamente anche la presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde, spiegando che le aziende hanno potuto tenere alti i prezzi per non perdere minimamente i loro profitti: “Nel 2022 i settori dell’edilizia, dei ristoratori, dei trasporti e dell’agricoltura erano riusciti a scaricare sui consumatori l’aumento dei costi che si trovavano a dover gestire” (C. Lagarde al Parlamento Europeo, 5.6.23). Loro hanno potuto farlo, alzando i prezzi all'aumento del costo dell'energia, a differenza dei salariati che non hanno nessuno su cui scaricarli. Per questi ultimi, l'unica alternativa valida al dover intaccare i propri risparmi o tentare di abbattere i consumi, ben sapendo però che ci sono dei consumi incomprimibili, è mettere spalle al muro chi li sfrutta, e imporre la priorità dei propri bisogni.
Nonostante ciò, il mantra che da più di un anno ci viene propinato, da quando è partita la spirale inflazionistica, è la solita vecchia canzone: non si possono aumentare i salari, perché si apre la porta all'inflazione! "L’inflazione è ancora troppo alta, e lo resterà nel medio periodo, ma bisogna continuare a moderare le richieste di aumenti dei salari reali per garantire il successo della lotta della Banca Centrale Europea (Bce) contro l’inflazione e per la stabilità dei prezzi. Per riportare l’inflazione all’obiettivo è fondamentale che in tutte le economie dell’area dell’euro le parti sociali adottino decisioni responsabili, volte a garantire che la dinamica di prezzi e salari resti coerente con il mantenimento della stabilità monetaria" così parlò Ignazio Visco, Governatore della Banca d'Italia, a un congresso di operatori finanziari del febbraio scorso. Il debito pubblico è alto, il debito privato basso, e il risparmio delle famiglie è alto. "In mancanza di una politica salariale, bloccata da decenni, è questo il grasso da bruciare nel lungo inverno" (Il Manifesto, 5.2.23). E non solo: quando questi personaggi parlano di "parti sociali", in realtà si riferiscono a una sola fattispecie, ossia i lavoratori. A quanto pare, però, la realtà sta diventando talmente macroscopica da non poter più essere ignorata, tanto è vero che deve accorgersene perfino il quotidiano di Confindustria: "Dopo due anni di ammonimenti delle autorità monetarie sulla necessità di impedire un ciclo vizioso tra salari e inflazione stile anni '70, dagli ultimi dati della Bce sta emergendo una situazione diversa: mentre la crescita dei salari è rimasta moderata rispetto all'aumento del tasso di inflazione oltre il 10%, emerge che le pressioni sui prezzi siano arrivate in misura crescente dai profitti delle imprese [...] Sembra che le imprese abbiano aumentato i prezzi più di quanto sarebbe stato giustificato dall'aumento dei costi, mentre la dinamica dei salari è stata moderata" (Il Sole 24 Ore, 3.4.23).
L'inflazione sale perché sono aumentati i profitti, ma a pagare sono i salari e le pensioni. Solo che, in assenza di un vero conflitto sociale e di lotte consistenti, contenere i salari facendo credere che l'inflazione dipende da questi, è facile. Mettere le briglie ai profitti, potrebbe farlo solo chi oggi paga.
Aemme