La capacità di difendere i confini nazionali, con le proprie forze, da un attacco esterno è considerata da sempre un fattore centrale per definire un paese come indipendente. L’Italia conta da decenni sul suo territorio 9 basi militari americane. In alcune di esse ci sono anche armi nucleari. In sostanza, la “sicurezza” italiana è affidata ad una potenza straniera. Non solo. Essendo sottoposte all’autorità dell’Alleanza atlantica (Nato), le basi possono servire da punto di partenza per azioni militari, ipoteticamente anche con l’impiego di armi nucleari, senza bisogno dell’autorizzazione del governo italiano. La propaganda nazionalista del governo sorvola disinvoltamente su questi dati di fatto e trova nei migranti che attraversano il Mediterraneo in cerca di un’occasione di sopravvivenza nel nostro paese il motivo per una chiamata alla “difesa dei confini” di fronte all’invasione dello straniero.
Se prendessero sul serio le loro idee balorde a base di “interesse nazionale” e “orgoglio patriottico”, Meloni e i suoi solleverebbero in primo luogo la questione dell’invasione delle truppe “straniere”, ad oggi circa 12.000, che stanziano dal 1945 in Italia e sono sostanzialmente sottratte ad ogni controllo delle autorità nazionali.
Giorgia l’americana
Ma il tessuto delle relazioni internazionali sono i rapporti di forza e non l’inafferrabile mondo delle idee. Che queste idee siano una miscela di razzismo e nazionalismo o si ammantino di spirito umanitario non fa molta differenza. L’Italia ha bombardato popolazioni inermi, ha lasciato affogare migranti o ha pagato gli aguzzini libici perché li trattenessero nei loro centri di detenzione e tortura, sotto governi di centrosinistra, di centrodestra e “tecnici”.
In fin dei conti, la destra al governo è ben cosciente di tutto questo, e si adegua ai rapporti di forza . Ha fatto del più completo appiattimento nei confronti di Washington l’asse della propria politica estera. D’altronde, la situazione è quella che è, e non sembrano possibili quei profondi mutamenti nella struttura del capitalismo italiano che, nei sogni e nelle millanterie di tanti “riformatori”, consentirebbero il miracolo di un nuovo rinascimento. Allora, in mancanza d’altro, inaspettatamente aiutati dal conflitto in Ucraina, si può giocare la carta della “lealtà atlantica”. In questo modo dimostrando alla piccola e grande borghesia che i partiti di governo, e in primo luogo quello della Meloni, hanno le spalle coperte e sono una specie di agenzia fiduciaria degli Stati Uniti, quella potenza che, in fin dei conti, con la sua immensa macchina militare, garantisce gli investimenti e i profitti dei capitalisti di tutto il mondo.
Per Meloni e i suoi è anche un modo per consolidare la propria “identità politica” in vista delle elezioni europee del 2024. Elezioni che si svolgono col sistema proporzionale, e quindi sono anche, inevitabilmente, una sorta di verifica delle forze relative di ciascun partito entro la stessa coalizione di governo.
Impedire l’immigrazione?
La lotta contro quella che chiamano “immigrazione clandestina” era uno dei punti del programma elettorale della coalizione di centrodestra. Meloni e Salvini, in modo particolare, farneticavano di un cordone di sicurezza con cui la marina militare avrebbe dovuto impedire le partenze dalla costa nordafricana. Era una stupidaggine irrealizzabile ovviamente. Di fronte a questa evidenza e di fronte alla triplicazione degli sbarchi, il governo si è inventata una nuova versione del celebre “aiutiamoli a casa loro”. Ma la favoletta degli aiuti ai paesi poveri dell’Africa, certamente non nuova e sicuramente non appannaggio esclusivo della destra, si scontra con dati precisi e misurabili. Secondo un rapporto Oxfam, sugli 83,3 miliardi di dollari annunciati dai paesi più ricchi nel 2020, per far fronte agli effetti della crisi climatica, ne sono stati stanziati, in realtà, 24,5. il che porta i paesi più ricchi e più inquinanti del mondo ben lontano dall’impegno di cento miliardi l’anno comunemente sottoscritto. Più della metà di questi “aiuti”, tra l’altro, sono dei prestiti, che quindi aggravano la situazione debitoria dei paesi, già economicamente fragili, a cui sono destinati. Parlando della sola Africa orientale, che sta affrontando la peggiore siccità da quarant’anni a questa parte, sempre secondo Oxfam, rischia di morire una persona ogni 28 secondi nei prossimi mesi.
Si può capire, allora, che di fronte a una prospettiva di questo tipo, nessuno accetterà di crepare o di veder crepare i propri figli in attesa che Stati Uniti, Giappone ed Unione Europea si convertano ad una politica di finanziamenti a fondo perduto per aiutare concretamente le popolazioni locali.
E i disastri climatici attribuibili all’attività umana - i cui principali responsabili sono i capitalisti dei paesi più industrializzati - con le conseguenze economiche e sociali che si portano dietro, sono solo uno dei motivi che spingono tanti africani, pakistani o afghani a rischiare la vita per la speranza di viverne una.
Dopo aver contribuito, con gli altri paesi più sviluppati, a ridurli in miseria, il governo italiano si sta ingegnando per rendere ancora più infernale il viaggio della speranza di questi esseri umani, cercando accordi con il regime di Tunisi, così come era stato fatto con quelli della Libia.
Tutto, ancora una volta, per l’”interesse nazionale”.
Il fiato corto del nazionalismo economico
Altro aspetto della politica estera della destra al governo è l’atteggiamento tenuto nei confronti della ratifica del nuovo Mes, il Meccanismo europeo di stabilità o Fondo salva Stati. Alla vigilia del vertice di Bruxelles del 29 e 30 giugno, nelle sue comunicazioni a Camera e Senato, la prima ministra ha dato fiato a tutta la sua retorica nazionalista, rivendicando a più riprese la difesa dell’“interesse nazionale” nel modo più chiassoso e rabbioso possibile affinché il suo elettorato, in gran parte intossicato dalla droga a buon mercato del patriottismo economico, potesse riceverne nuove dosi. Nel frattempo, la popolazione della Romagna e delle altre province alluvionate hanno potuto sperimentare l’amore per la “Patria” del governo Meloni, che a un mese dal disastro non aveva ancora fatto pervenire nei territori interessati i “ristori” promessi, lasciando inoltre le amministrazioni di comuni spesso molto piccoli ad affrontare le spese ingenti di movimento terra o di ricostruzione di interi tratti di strade.
Tornando al Mes, a detta di molti commentatori, ci sono tutte le probabilità che venga ratificato, alla fine, anche dal governo italiano, come lo stesso ministro dell’economia Giorgetti ha anticipato. Ma al governo serve continuamente qualcosa che rinnovi nell’elettorato la sua immagine di forza che sa fare valere gli “interessi nazionali” di fronte agli altri paesi europei. Antonio Tajani, ministro degli esteri, lo ha spiegato molto bene: “questa è una trattativa politica. E noi dobbiamo tenere il punto per ottenere qualcosa. Se la moglie vuole andare in montagna e il marito al mare, bisogna trovare una mediazione” (La Stampa, 29 giugno 2023).
Una Camera semideserta, il 30 giugno, ha votato a maggioranza una “questione sospensiva” per proporre lo slittamento di quattro mesi del voto sulla ratifica del Mes. Un tempo che dovrebbe servire a negoziare in Europa qualche vantaggio per l’Italia sui limiti di sforamento della spesa pubblica, sulla gestione dell’immigrazione e sulla rimodulazione dei fondi Pnrr. In pratica una “furbata” sulla quale gli stessi ambienti imprenditoriali e finanziari nutrono molti dubbi, e che dovrebbe rafforzare – nell’intenzione della coalizione di centrodestra - l’immagine di un governo forte che sa imporsi su tutti gli altri paesi europei. Naturalmente in nome dell’”interesse nazionale”.
La crisi politica dell’europeismo
Le dimensioni organizzative e logistiche raggiunte, nel corso di decenni, dalle imprese industriali capitalistiche, dalle banche, dalle catene di approvvigionamento e commercializzazione si scontrano da molto tempo con i limiti geografici delle nazioni. Questo dato di fatto, però, nonostante decenni di discorsi sull’integrazione europea, non è riuscito a dar vita ad una forma politica adeguata. Detto in altri termini, le borghesie tedesca, italiana o francese, che furono capaci di unificare le rispettive “patrie” o di liberarle dai residui feudali, non sono state poi capaci di fondare gli Stati uniti d’Europa, unificando politicamente il vecchio continente. I partiti politici si adeguano a questo fallimento storico, chi facendo finta di credere che prima o poi l’Europa unita si farà e chi costruendo su questo fallimento la propria identità politica. L’enfasi degli esponenti di Fratelli d’Italia e degli altri personaggi della destra sull’”interesse nazionale” è per l’appunto questo: è la trasformazione di un fallimento in motivo di orgoglio.
I lavoratori europei sapranno fare quello che la borghesia capitalistica non ha saputo realizzare. Ma non lo faranno per dare all’economia capitalistica quell’uniformità di regole e quel governo continentale che non sa darsi. Perché per la classe lavoratrice esiste un “interesse internazionale” a mandare il capitalismo a gambe all’aria e a dar vita ad un’ unione europea su basi economiche e sociali egualitarie, rivoluzionarie e socialiste.
R. Corsini