Il 21 gennaio di cento anni fa, l’ultimo dei cinque giorni di un burrascoso congresso socialista, nasceva il Partito Comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista. Un folto gruppo di delegati usciva dal teatro Goldoni di Livorno, sede del Congresso, al canto dell’Internazionale. Si ritrovarono poco dopo al teatro San Marco per formalizzare la fondazione del nuovo partito con un ordine del giorno presentato da Bruno Fortichiari.
Non si può ridurre la nascita del Pci a un episodio della sinistra in Italia. È un vezzo ridicolo che periodicamente torna di moda. Si tratta invece della parte che ebbe il proletariato italiano, con i suoi migliori dirigenti, nella grande ondata rivoluzionaria che investì gran parte del mondo sul finire della Prima guerra mondiale fino ai primi anni ’20 del ‘900.
La Rivoluzione proletaria, di cui per anni si era parlato e quasi favoleggiato in opuscoli, libri, discorsi e comizi, era ora una realtà. In Russia nel 1917 operai e contadini, stufi della guerra e della miseria, avevano fatto crollare il vecchio edificio statale e, il 7 novembre, avevano decretato il potere dei consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, immediatamente noti in tutti i paesi con la parola russa soviet.
L’odio per i governanti, per la borghesia, per gli stati maggiori, sentito da milioni di giovani cacciati a forza nelle trincee dai governi di mezzo mondo, trovò così uno straordinario punto d’appoggio. Fare come in Russia, questa semplice e dirompente parola d’ordine cominciò allora a circolare nei fronti opposti dei campi di battaglia. La crisi economica che seguì alla guerra non fece che aumentare la popolarità delle idee socialiste e rivoluzionarie tra le masse.
Un’ondata di entusiasmo centuplicò le energie del movimento operaio di tutti i paesi. Mentre si moltiplicavano gli aderenti alle vecchie organizzazioni operaie, l’appena costituita Internazionale Comunista riprendeva la bandiera dell’internazionalismo proletario infangata dalla quasi totalità dei partiti socialisti nel corso della guerra. Nuove correnti più combattive e più ferme nei propositi si affermavano nel movimento socialista, stavano prendendo corpo i partiti comunisti.
Già dalla sua fondazione, nel 1919, la nuova Internazionale aveva dato l’indicazione di formare organizzazioni autenticamente comuniste, ma la forza della tradizione e i legami sentimentali col vecchio partito ritardarono, in Italia come in altri paesi, la scelta della rottura. Mentre tutto il paese era attraversato da lotte di straordinaria ampiezza e durata, i militanti comunisti italiani elaboravano faticosamente le intese che dovevano portarli alla fondazione del partito.
Il congresso di Livorno
Gli scioperi e le occupazioni delle fabbriche e delle terre, le insurrezioni spontanee avvenute nel corso degli anni 1919 e 1920, erano state quasi sempre sconfitte per il tradimento dei capi riformisti, socialisti a parole, della Confederazione del lavoro. Ma anche l’ondeggiamento, la mancanza di fermezza, la confusione politica dei capi massimalisti avevano di fatto paralizzato l’onda rivoluzionaria. Per tutto il periodo di massima incandescenza delle lotte di classe i lavoratori non poterono contare su un risoluto partito che intendesse sul serio darsi i mezzi per organizzare e condurre il moto rivoluzionario.
I nodi vennero al pettine nel congresso di Livorno. Il Partito socialista, in tutte le sue componenti, si dichiara favorevole all’Internazionale Comunista, perfino il riformista Turati. Ma nel discutere le 21 condizioni di ammissione fissate dall’ Internazionale l’anno precedente emergono i dissidi. Non è una questione di forma. Bordiga e gli altri rappresentanti della corrente comunista, presentando la loro lunga relazione, insistono sulla necessità di espellere i riformisti e di porsi integralmente sul terreno definito dalle deliberazioni dell’Internazionale. Serrati, pur definendo la sua corrente come “comunista unitaria”, sostiene che la linea tracciata dal congresso internazionale deve essere rispettata tenendo conto delle “particolarità” italiane. In sostanza rifiuta di espellere l’ala riformista dal partito. La votazione finale vede tre mozioni diverse. Quella riformista ottiene i voti dei rappresentanti di 14.695 iscritti, quella dei “comunisti unitari” di Serrati ne raccoglie 98.028, quella comunista 58.783.
Pietro Nenni, rappresentante di un massimalismo annacquato e confusionario, scrisse: “Nella scissione, che lasciò sussistere due partiti comunisti in lotta feroce e spietata fra di loro ed in uno dei quali erano prigionieri i riformisti ed i centristi, deve ricercarsi la causa del disorientamento che colse le masse e che le offrì, inermi, agli assalti della reazione”. (Pietro Nenni, Storia di quattro anni, 1926). Una ricostruzione di comodo, che nasconde le enormi responsabilità che ebbero i dirigenti socialisti riformisti nell’impedire di combattere efficacemente il fascismo nascente. Responsabilità che, sul piano politico, si devono estendere ai massimalisti, in quanto costituirono la copertura a sinistra dei riformisti.
I giovani comunisti
Dopo pochi giorni dal congresso di Livorno, si svolse quello della Federazione giovanile socialista. Uno studioso del movimento operaio ne ha dato questa descrizione: “La mattina del 29 gennaio, difeso dalle barricate innalzate dagli arditi del popolo e dai giovani socialisti contro le azioni fasciste, si apriva a Firenze nei locali della Società di Mutuo Soccorso “Andrea del Sarto”, l’ottavo congresso della Federazione giovanile socialista italiana: il congresso di fondazione della Federazione giovanile comunista. Vi si presentava una forza organizzata rilevante, sostanzialmente uguale nel numero, ma certamente superiore per la solidità e l’anzianità delle proprie strutture organizzative, al nuovo partito comunista: forte di 1400 sezioni e di 55813 iscritti, con un incremento tra il 1918 e la fine del 1920 di oltre il 700%”. (Giovanni Gozzini, alle origini del comunismo italiano, 1979).
Nel complesso, dunque, la forza dei comunisti italiani è ragguardevole e si farà sentire negli anni successivi.
Anche non tenendo conto della federazione giovanile, il movimento comunista è essenzialmente un movimento di giovani. È un dato di cui tenere conto. Dove difettò l’esperienza si ebbe coraggio, entusiasmo e spirito di sacrificio in abbondanza. Tra i dirigenti del partito al momento della fondazione nessuno raggiunge i quarant’anni. Amadeo Bordiga che sarà il primo segretario ha 32 anni, Umberto Terracini ne ha 26, Gramsci 30, Togliatti 28 e Bruno Fortichiari 29. Solo Antonio Graziadei, un professore di economia, ha 48 anni. Nella massa degli iscritti l’età media è ancora più bassa.
La tattica dei comunisti
Il giovane Partito comunista riuscì a rappresentare un punto di riferimento per le successive generazioni di rivoluzionari marxisti. Con tutti i suoi errori e i suoi settarismi, esso fu il primo partito che propagandò il concetto di dittatura del proletariato in Italia, in opposizione all’ambigua formula della “conquista de pubblici poteri” che apparteneva al vecchio programma socialista. Lo fece in mezzo ai lavoratori e ottenendone, in numero rilevante, l’appoggio attivo e cosciente. Riprendendo gli insegnamenti della Rivoluzione russa, indicò alla classe operaia italiana la via al socialismo. Seppe spostare il baricentro della propria azione dalle competizioni elettorali alle lotte di massa e fu la componente politica più attiva e risoluta nella lotta contro il fascismo.
Non fu la scissione di Livorno ad aprire la strada alla reazione aperta di Mussolini, fu il ripiegamento del ciclo rivoluzionario su scala mondiale. Lo stesso fenomeno che favorì la degenerazione burocratica dell’Unione Sovietica, rafforzò in ogni paese le correnti politiche e le soluzioni di governo più ostili al proletariato. La borghesia stava di nuovo riguadagnando terreno e il suo sistema economico conosceva una nuova precaria stabilizzazione. Un processo che trovò nel Partito socialista un solido punto d’appoggio. Questo partito sabotò in ogni modo l’organizzazione della resistenza operaia alle aggressioni fasciste, incoraggiando ottusamente le illusioni legalitarie, appellandosi alla “pazienza”, alla capacità di “sopportazione”, alla non-violenza, proprio mentre le squadre in camicia nera incendiavano le camere del lavoro, bastonavano, uccidevano nelle città e nelle campagne.
Mano, mano che ci si avvicinava alla completa vittoria del fascismo, alla trasformazione del partito di Mussolini da agenzia di picchiatori e assassini al soldo di industriali e agrari a soluzione di ricambio del potere borghese, l’attività del Partito comunista incontrava sempre maggiori difficoltà. I suoi militanti più noti e i suoi dirigenti venivano arrestati e incarcerati, mentre quell’Unione Sovietica che fino ad allora aveva rappresentato il più sicuro punto di forza del movimento rivoluzionario mondiale stava divenendo un baluardo della conservazione sociale, un sostegno all’ordine capitalistico internazionale. La liquidazione del vecchio gruppo dirigente, prevalentemente legato a Bordiga, avvenne in questo quadro e sotto l’influenza del nuovo orientamento staliniano in Russia.
A noi, come parte integrante del patrimonio politico rivoluzionario, restano gli insegnamenti delle prime lotte dei comunisti italiani. Resta la consapevolezza che la costruzione di un nuovo partito comunista tra i lavoratori dovrà fare proprio questo patrimonio.
A un secolo di distanza, leggere il programma, l’atto di nascita, del PCd’I fa uno strano effetto. Non per le parole che ci appaiono inattuali, ma per quelle che ancora calzano perfettamente al mondo di oggi e alla realtà del capitalismo contemporaneo. Al punto 2, per esempio, si legge: “Gli attuali rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese, che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica”.
La consapevolezza di questa verità, così efficacemente condensata in tre righe, è la basi più solida che può avere oggi una politica indipendente della classe lavoratrice.
L'Internazionale, 10 gennaio 2021