Italia - I danni del virus e quelli del capitalismo

Con oltre 30.000 morti in dieci settimane e probabilmente molto di più in realtà, l'Italia è uno dei paesi europei dove la pandemia di coronavirus ha fatto più vittime, con epicentro nelle regioni più sviluppate e popolate del Nord. Oltre a questo numero di morti, le ripercussioni economiche e sociali della crisi hanno fatto sprofondare decine di migliaia di lavoratori nella povertà e minacciano l'intera classe operaia.

La crisi causata dalla pandemia ha illustrato in primo luogo la drammatica situazione del sistema sanitario italiano. Dietro le grossolane affer­mazioni su "l'eccellenza del sistema sanitario che il mondo ci invidia", la realtà è una continua diminuzione delle risorse. Secondo le statistiche dell'OCSE, il numero di posti letto ospedalieri disponibili è diminuito del 35% tra il 2000 e il 2019, passando da 298.000 a 192.000.

Un sistema sanitario che si prende cura degli investitori

Come in tutti i paesi sviluppati, questa tendenza al ribasso è il risultato di una serie di riforme sanitarie che hanno sancito da un lato il disimpegno finanziario dello Stato e dall'altro lo sviluppo di un settore privato molto redditizio, dedicato soprattutto alle procedure e alle cure più remunerative. La regionalizzazione del sistema sanitario aggrava queste caratteristiche, aggiun­gendovi una significativa disuguaglianza di accesso alle cure a seconda della regione. Le regioni controllano 225 Aziende sanitarie locali (ASL), che gestiscono 1.488 strutture pubbliche e private, dagli ospedali alle case di cura e di riposo. La gestione dell'assistenza sanitaria dalle regioni consente a ciascuna di avere una politica autonoma. I casi di corruzione, che scoppiano regolarmente intorno alla gestione delle strutture sanitarie, illustrano il fatto che la sanità è un settore ideale per arricchire gli imprenditori che si aggiudicano appalti ospedalieri pubblici o investono nel settore privato, e i politici che ne incassano le tangenti.

La carriera di Roberto Formigoni ne è un buon esempio. Formigoni fu vicino a Berlusconi, che lo definì "il governatore a vita della Lombardia", e regnò sulla regione per diciotto anni tra il 1995 e il 2013. Alla fine è stato condannato dopo molteplici casi di corruzione. Tra gli scandali di maggior rilievo c'è l'accusa di aver promosso l'ampliamento dell'ospedale privato San Raffaele di Milano in cambio di milioni. Questo ospedale, emblematico dello sviamento dei fondi dalla regione alle tasche degli investitori, è stato acquistato nel 2012 dal gruppo ospedaliero privato San Donato, che dirige 18 ospedali, 17 dei quali in Lombardia. Fondatore e responsabile del gruppo, fu Giuseppe Rotelli è stato in precedenza presidente del Comitato regionale di program­mazione sanitaria della Regione Lombardia. Un posto privilegiato per promuovere lo sviluppo del suo impero privato e per attirare le risorse finanziarie della regione.

Specializzato nelle attività più redditizie, il settore privato ha abbandonato i servizi di emergenza e di rianimazione, le famose "prime linee" della guerra contro l'epidemia, al magro settore pubblico. Solo rivolgendosi al settore privato i pazienti possono risparmiare mesi di attesa e farsi curare, a condizione però di potere pagare.

Nelle aree meno ricche del sud, la crisi del sistema sanitario è ancora più acuta, con servizi di pronto soccorso e di rianimazione dalle capacità ancora più limitate. Al culmine dell'epidemia tutti gli operatori sanitari temevano l'estensione della malattia a queste regioni, che non sarebbero state in grado di affrontarla. Fortunatamente sono state relativamente risparmiate.

Sulla scia della crisi del virus, è ormai di moda per tutti i politici applaudire i sacrifici fatti dagli operatori sanitari e promettere loro risorse, pur evitando di evocare la loro propria responsabilità e quella dei governi del passato in questa mancanza di risorse. In effetti, gli operatori sanitari stanno pagando un prezzo alto per la situazione di carenza in cui hanno dovuto lavorare. Alla fine di aprile, c'erano già quasi 20.000 contaminati e 185 morti tra gli operatori sanitari. Allo stesso tempo, questi ultimi denunciavano il rifiuto dei responsabili di ospedali e strutture sanitarie di riconoscere le contaminazioni avvenute tra il personale come incidenti sul lavoro, col pretesto che la malattia poteva essere stata contratta mentre si era fuori servizio. Questa è la vera misura della "eterna gratitudine" proclamata in tutte le occasioni dalle autorità.

La macchina del profitto non si deve fermare

Alla situazione di indigenza sanitaria si è aggiunta la politica della borghesia, decisa a mantenere i propri profitti ad ogni costo. La drammatica situazione della regione di Bergamo ne è l'esempio più tremendo. L'immagine di decine di camion militari che percorrevano le strade deserte per evacuare centinaia di morti di cui i servizi funebri della città, saturi, non potevano più occuparsi, ha colpito particolar­mente. Bergamo, città di 120.000 abitanti, è passata tra il 23 febbraio e il 1° marzo da due a 220 casi di Covid-19 ufficialmente registrati. Era solo l'inizio di una crescita esponenziale del numero di malati e di morti. Nel solo mese di marzo, la regione bergamasca ha contato quasi 200 morti al giorno. Eppure, a differenza di altre città lombarde come Codogno, dichiarata zona rossa il 1° marzo con 50 casi registrati, e quindi completamente isolata dal resto del Paese, Bergamo non è stata sottoposta ad alcun prov­vedimento particolare.

"La strage ha una sola origine: i padroni non hanno mai voluto fermare le fabbriche. Col farci andare al lavoro ogni giorno, hanno messo in pericolo le nostre vite e contribuito alla morte di centinaia, migliaia di persone fragili, alle quali ci hanno fatto comunicare il virus. Sono criminali", ha spiegato in lacrime un operaio di una delle fabbriche della Val Seriana. In questa zona della provincia di Bergamo sono presenti centinaia di aziende che impiegano migliaia di lavoratori. Ci sono grandi gruppi come Tenaris, che produce infrastrutture per l'esplorazione e l'estrazione di petrolio e gas e appartiene alla famiglia Rocca, una delle dieci famiglie più ricche del paese, e ABB, un gruppo svizzero-svedese specializzato nella produzione di sistemi robotici avanzati. La regione è anche sede di un gran numero di aziende della componentistica, grandi e piccole, sistematesi nelle vicinanze degli stabilimenti automobilistici di Lombardia e Piemonte. Tra questi, lo stabilimento Persico, con i suoi 500 lavoratori, è emblematico dell'impor­tante strato dei padroni di piccole e medie imprese. Il suo dirigente, Pierino Persico, si è opposto all'istituzione di una zona rossa, così come l'intera comunità imprenditoriale locale, che ha promosso una campagna chiamata Bergamo non si ferma, alla quale il sindaco della città si è inizialmente associato prima di cambiare idea di fronte al disastro e al malcontento della popo­lazione. Ma i datori di lavoro, con gli occhi fissi sul fatturato, hanno continuato a chiedere ai lavoratori di venire a rischiare la vita ogni giorno. Il 5 marzo, su un giornale locale, un padrone il cui paternalismo non escludeva la stupidità rispondeva alla domanda su come mantenere la sua attività: "prendo cura dei miei lavoratori. Sono più al sicuro in fabbrica che a casa, dove hanno meno spazio".

L'esempio dei datori di lavoro bergamaschi illustra il comportamento di tutta la borghesia. Il 28 febbraio, la Confindustria lanciava sui social la campagna "Sì, lavoriamo!". Il presidente dell'organizzazione padronale in Lombardia, Bonometti, spiegava la necessità di "non guastare l'immagine della Lombardia, capitale economica del Paese". Infatti è dal nord del Paese, questo bastione del capitalismo italiano che conta il maggior numero di imprese e la più alta concentrazione di attività economiche, che la borghesia italiana ha fatto sentire la sua voce durante la fase più acuta della crisi sanitaria per dettare le proprie condizioni al governo. Queste condizioni si possono riassumere nel programma universale della classe capitalista: lo Stato non imponga vincoli e apra i rubinetti del denaro pubblico per le imprese.

In quarantena o meno, i lavoratori pagano il conto

Il governo Conte, pronto a seguire questa linea, doveva però cercare di arginare la catastrofe sanitaria. Ma le misure di contenimento messe in atto in tutto il Paese il 9 marzo non escludevano viaggi per recarsi al lavoro in condizioni di sicurezza insufficienti o addirittura inesistenti. Nel settore della logistica, ad esempio, di cui i più grandi magazzini si trovano al nord, decine di lavoratori sono stati contaminati e alcuni hanno perso la vita. Nei settori in cui l'attività non poteva fermarsi, come gli impianti di trasformazione alimentare, c'è stata una lotta per la protezione. Uno stabilimento di surgelati di Reggio Emilia, la Pregel, ha fatto scandalo quando ha licenziato un delegato sindacale intervenuto per chiedere protezioni, spingendo il cinismo al punto di accusarlo di avere tossito davanti a un collega senza coprirsi il naso e la bocca. Solo di fronte allo scandalo provocato, ha dovuto fare marcia indietro e reintegrarlo.

A partire dal 12 marzo, all'obbligo di continuare a lavorare in molti settori non essenziali hanno risposto scioperi dei lavoratori, in particolare al Nord, ma anche in diverse grandi aziende del Sud. Movimenti spontanei si sono svolti alla Fincantieri di Marghera, alla Bitron di Milano, all'Alfa Acciai di Brescia, al call-center Almaviva di Palermo e in molte altre aziende. A Mantova, i 450 operai dell'azienda tessile Corneliani si sono rifiutati di lavorare, dicendo: "Non ci sono cittadini di serie A e di serie B. Il diritto alla salute è uguale per tutti e appartiene a tutti". Questo ampio movimento di protesta ha portato i dirigenti delle tre confederazioni sindacali a minacciare un giorno di sciopero generale se non si fosse fatto nulla.

Il 23 marzo il governo Conte ha finalmente decretato la chiusura delle imprese non essenziali. Ma l'elenco delle eccezioni, dettate dalle grandi imprese, andava dalla metallurgia alla chimica, alla gomma e persino all'industria delle armi. La decisione di chiudere la produzione di alcune grandi aziende, come la Fiat Chrysler (FCA), è stata più dettata dalla mancanza di componenti e della chiusura delle concessionarie che non dalla volontà di tutelare la salute dei lavoratori.

Dopo l'annuncio del decreto, gli scioperi sono ripresi in diverse aziende, costringendo i dirigenti sindacali a minacciare di nuovo uno sciopero generale, mentre imploravano il governo di dare loro i mezzi di evitarlo : Landini, intervistato il 24 marzo, assicurava: "Il primo ministro Conte può fermare lo sciopero ed evitare così di uccidere il futuro". Così si è aperta una nuova sessione di video-negoziazione, sfociata in un decreto modificato del quale i leader sindacali si sono subito dichiarati soddisfatti. In realtà, con il pretesto di mantenere una produzione indispen­sabili per i settori essenziali, come gli imballaggi di plastica per i medicinali o i prodotti alimentari, o i tessuti necessari per la fabbricazione di mascherine o camici, l'elenco delle eccezioni era sufficientemente vago e ampio da non dare fastidio ai padroni che volevano continuare a far produrre.

Mentre centinaia di migliaia di lavoratori preoccupati per la propria salute non hanno praticamente smesso di svolgere la loro attività, altri, più precari, hanno perso la loro fonte di reddito e sprofondano nella povertà. Quelli senza contratto, ossia i quasi tre milioni di lavoratori al nero, e i quattro milioni di lavoratori autonomi, precari, impiegati nei bar, negli alberghi o nell'assistenza personale, si trovano senza reddito e senza aiuti di Stato. Secondo la Caritas, il numero dei poveri che necessitano di aiuti alimentari d'emergenza è raddoppiato dall'inizio dell'epidemia. "In aprile, altre 40.000 persone si sono rivolte a noi per le distribuzioni di cibo. Abbiamo visto operai edili, lavoratori stagionali, lavoratori precari, ma anche piccoli negozianti", spiega l'associazione.

La povertà stava già colpendo una parte significativa dei lavoratori, a cui la chiusura a causa del confinamento ha inferto un colpo fatale. La stampa ha riportato molte testimonianze, come quella di una donna milanese di 46 anni, che si recava per la prima volta ad una distribuzione di aiuti alimentari. Questa madre di due figli adulti che ancora dipendono da lei ha raccontato di aver perso i due contratti con cui la famiglia si barcamenava per vivere. Donna delle pulizie in uno studio dentistico durante la settimana e collaboratrice domestica nel fine settimana, non aveva più diritto ad alcun sussidio in quanto il primo lavoro era al nero e il secondo, ad orario ridotto, non dava diritto alla cassa integrazione. Aveva quindi perso ogni fonte di reddito, così come sua figlia, operatrice del doposcuola. "Con quello che stava arrivando a casa, riuscivamo a malapena a farcela. Poi, quando è rimasto un solo pacchetto di pasta nella credenza, siamo dovuti andare a chiedere aiuto", diceva.

La risposta del governo alla crisi

L'attuale governo, risultato di un traballante accordo tra il Partito Democratico e il Movimento Cinque Stelle, non sarebbe nato senza la crisi politica provocata da Matteo Salvini alla fine dell'estate 2019. Forte del risultato delle elezioni europee, di cui la Lega era uscita in testa in gran parte a spese dell'M5S, Salvini col rompere l'accordo di governo con quest'ultimo voleva provocare nuove elezioni per potere governare da solo. Per evitare un tale risultato l'M5S si è alleato con lo stesso PD che ancora il giorno prima aveva chiamato "partito dei corrotti", mentre il PD doveva fare ingoiare alla sua base elettorale di sinistra l'alleanza con l'M5S che aveva sostenuto senza mezzi termini le ripugnanti misure contro i migranti del precedente governo e del suo ministro degli Interni Salvini.

Così è nato il secondo governo Giuseppe Conte, che certamente non si aspettava di dovere gestire una crisi come quella del coronavirus. Sconosciuto prima di essere stato scelto per guidare la precedente squadra M5S-Lega, la sua fama di uomo al di sopra dei partiti gli ha facilitato il compito a tal punto che, stando ai sondaggi, vi avrebbe guadagnato un po' di credibilità.

Con lo slogan "Tutti insieme, possiamo farcela", il governo ha intonato l'inevitabile ritornello dell'unità nazionale e dei sacrifici necessari nel momento stesso in cui annunciava lo stanziamento di decine di miliardi a beneficio del capitale. La nuova legge finanziaria presentata il 13 maggio sotto il nome di Decreto Rilancio deve aggiungere altri 55 miliardi di euro alle somme precedentemente previste, di cui la maggior parte è destinata ad aiutare le imprese con sussidi ed agevolazioni fiscali di ogni genere, mentre ai lavoratori autonomi, partite Iva e ad alcuni lavoratori stagionali viene erogato un misero sostegno di 600 euro a marzo ed aprile.

Inoltre, se una proroga di tre mesi del permesso di soggiorno è stata prevista per i braccianti di cui è scaduto il contratto, è solo in considerazione delle difficoltà incontrate dalle aziende agroalimentari nel periodo delle raccolte, specificando che "non si tratta di applicare questo provvedimento a tutte le persone presenti sul territorio, ma a coloro che potrebbero esserci utili in questa particolare circostanza".

La classe operaia e le sue prospettive

La pandemia sembra ormai sotto controllo, ma qualunque sia l’evolversi della situazione sani­taria, la classe operaia e l’insieme dei ceti popo­lari dovranno fronteggiare una seconda ondata: quella della crisi economica e della pandemia di licenziamenti, di tagli ai finanziamenti pubblici, dell’aumento dello sfruttamento. Per non subire la condanna alla povertà, la classe operaia non avrà altra scelta che lottare contro l’offensiva della borghesia. Finora, si trova di fronte partiti e sindacati integrati alla società borghese, di cui nessuno mette in discussione le leggi del capita­lismo.

È ovviamente il caso dei partiti attualmente al governo, che gestiscono la crisi facendo piovere miliardi sui padroni, spiegando, a nome dell’unità nazionale, che tutti devono rimboccarsi le maniche e accettare sacrifici. L’unica voce di opposizione proviene dall’estrema destra, i cui leader pretendono demagogicamente parlare a nome dei lavoratori, accusando il governo di aver "imprigionato lavoratori italiani nelle loro case senza alcun aiuto, mentre si preparava a pagare milioni per i clandestini", e puntando cosi, come al solito, sulla divisione tra sfruttati.

La classe operaia non ha scelta. Dovrà superare l'ostacolo della demoralizzazione, del profondo disorientamento politico e morale, ereditato dai successivi tradimenti delle organizzazioni politiche e sindacali che pretendevano di rappre­sentarla. Per contrastare la minaccia di degrado assoluto delle proprie condizioni di vita, dovrà non solo organizzarsi sul proprio terreno di classe, ma anche riconquistare, ad un livello più profondo, la coscienza politica che sarà neces­sario strappare alla classe capitalista il suo potere e il suo dominio sull'economia.

Giugno 2020