Venezuela - Il fallimento del chavismo e le manovre imperialiste

Da “Lutte de classe” n°198 - marzo-aprile 2019

Il Venezuela sta sprofondando in una situazione di crisi politica, economica e sociale di cui la popolazione è la prima vittima. Dal 2013, sono tre milioni gli abitanti che hanno lasciato il paese. Se i più fortunati riescono ad andare negli Stati Uniti o in Europa, gli altri sono ridotti alla situazione di profughi in Brasile o in Colombia, dove non sono bene accolti. Nel paese che detiene le più importanti riserve di petrolio del pianeta, il regime del presidente Maduro non riesce più a fornire alla popolazione il cibo e le cure necessarie, al punto che chi aveva voluto vedere nel Venezuela di Chavez un nuovo modello di rivoluzione socialista diventa silenzioso o critico. Gli anticomunisti parlano di fallimento di un socialismo peraltro mai esistito, ma non criticano il fatto che gli Stati Uniti si comportano come se questo paese sia una loro proprietà.

Gli Stati Uniti hanno immediatamente riconosciuto il presidente dell'assemblea nazionale venezuelana Juan Guaidò quando si è autoproclamato presidente del paese al posto di Nicolas Maduro. Sono stati subito imitati dal Canada e da molti paesi dell'America latina e dell'Unione europea. Anche se per ora questo tentativo per rovesciare il regime di Maduro non è riuscito, certamente la crisi non è risolta. Qui ritorniamo sulle origini di tale situazione.

Il fallimento del chavismo

L'economia del Venezuela non è stata risparmiata dalla crisi mondiale del 2008. Nel 2009 è arretrata di circa il 4%. Come altri governi, quello presieduto dal 1998 al 2013 da Hugo Chavez (1954-2013), il fondatore del movimento chavista, ha imposto alle classi popolari di pagare la crisi. Nel 2010, il Pil arretrava ancora di circa il 6%, mentre le fabbriche producevano soltanto al 50% delle loro capacità, la siderurgia era stagnante e la produzione di petrolio ridotta.

Chavez denunciava allora i “privilegi„ dei lavoratori, in realtà il loro diritto di portare avanti le loro rivendicazioni e di scioperare. Come nel resto del mondo, gli strumenti dello Stato sono serviti a salvare i capitalisti. Questo dirigente “socialista„ varava allora miliardi di dollari per salvare nove banche. Il cosiddetto “anti-imperialista„ dava 1,5 miliardo di dollari alla General Motors e permetteva a parecchie multinazionali, anche nord-americane, di insediarsi nella ricca zona petrolifera e metallifera dell'Orinoco.

Chavez svalutava anche la moneta nazionale, il bolivar, ed aumentava l'aliquota IVA a spese delle classi popolari. Il cambio del dollaro ed i prezzi salivano alle stelle, l'inflazione raggiungeva il 30% mentre i salari erano bloccati. Imponeva tagli di bilancio nella sanità e nell'istruzione, settori pubblici dove i lavoratori dovevano aspettare mesi per riscuotere la retribuzione.

Nella stessa epoca collassava il sistema statale di distribuzione alimentare. I responsabili chavisti avevano accesso a vantaggiosi crediti e tassi di cambio del dollaro, come presunto aiuto per i loro acquisti, ma speculavano sui tre tassi di cambio del dollaro esistenti e deviavano le merci verso i circuiti del mercato nero, ad esempio spedendole in Colombia per farle ritornare, più costose, in Venezuela. I gestori potevano anche dichiarare dei prodotti scaduti ottenendo nuove consegne e rivendendole al settore privato. La corruzione funzionava alla grande, al punto di potere dimenticare la presenza di 92 000 tonnellate di prodotti alimentari avariati. Questi 4 000 contenitori, abbandonati in una quindicina di capannoni nello Stato di Carabobo e scoperti nel maggio 2010, rappresentavano tre mesi di prodotti alimentari della rete governativa. Ciò dà la misura dello spreco derivante dalla corruzione.

La politica di attacchi alla classe operaia portò ad un primo arretramento dei chavisti alle elezioni legislative del 2010 e causò un'esplosione di rabbia. Nel 2011 si registravano più di cinquemila proteste, il 70% di più dell'anno precedente.

Nel 2013, dopo la morte di Hugo Chavez, gli succedeva Nicolas Maduro. Ma la situazione continuava a peggiorare, mentre il barile di petrolio era ancora attorno ai 100 dollari. La politica di austerità contro le classi popolari continuò. Le elezioni del 2015 si tradussero con un crollo dei chavisti, messi in minoranza all'assemblea nazionale. Mentre Maduro faceva di tutto per rimanere al potere, l'inflazione esplodeva. Tra il 2014 ed il 2017, salì dal 68% al 1800% annuo. Dal 2014, i poteri pubblici cessarono di valutare il paniere della spesa.

Le classi popolari vennero sottoposte a molteplici restrizioni, ma il regime continuò a pagare gli interessi del debito ai suoi creditori. Un decreto di Maduro allargò ancor di più il saccheggio della zona di prospezione mineraria dell'Orinoco da parte delle multinazionali, che godevano di un regime d'esenzione parziale o totale delle tasse.

Nel 2016 cominciarono i saccheggi di supermercati. Se ne registrarono 700 solo in quell’anno. La risposta di Maduro fu brutale: la repressione provocò una dozzina di morti e portò a centinaia di condanne detentive. Le manifestazioni di protesta orchestrate dalla destra, alle quali si unirono chavisti delusi, ebbero la stessa risposta. Oggi, dopo cinque anni di scontri, secondo Foro penale, un'organizzazione di difesa dei diritti umani, ci sarebbero 14000 prigionieri politici.

Nei mesi di luglio e agosto 2017 si verificò una tregua. L'opposizione di destra, spinta dagli Stati Uniti, dall'Unione europea e dal Vaticano, cercò di dialogare con il potere. Ciò diede un po' di respiro a Maduro, che a Natale fece promesse mai mantenute: non arrivarono né la carne di maiale né i giocattoli annunciati. Le manifestazioni ripartirono per esigere prodotti alimentari e aumenti salariali. Il numero di persone considerate malnutrite passarono da 2,8 a 4,1 milioni. La mortalità infantile aumentò del 30%. Il cambio del dollaro avvenne secondo corsi diversi. Il governo lo comprava con 10 bolivar, le imprese con 3000 bolivar, ma al mercato nero ne valeva 200 000.

Di fronte alla penuria di derrate e di medicine, le risposte del cosiddetto governo socialista divennero ridicole: allevare conigli nelle case, praticare l'agricoltura urbana in vasi su balconi e terrazze, tornare alle medicine ancestrali… Molti risposero con manifestazioni, oppure lasciando il paese.

Il sostegno popolare a Chavez

Nei primi anni, non erano mancati i sostegni popolari al regime chavista. I lavoratori si erano mobilitati per difenderlo contro due colpi di Stato orchestrati dalla borghesia e dagli Stati Uniti.

Il chavismo sorse nel 1998 dal crollo del sistema politico avvenuto nel 1958, dopo la caduta di una dittatura militare. Il cosiddetto sistema Adeco si era basato durante quaranta anni sull'alternanza di due gruppi governativi, la sinistra della Acción Democrática (Azione Democratica, AD) e la destra del Comité de Organización Política Electoral Independiente (Comitato d'Organizza­zione politica elettorale indipendente, Copei). Nel 1989 fu l'inizio della fine, quando il governo AD di Carlos Andrés Pérez, legato alla socialdemocrazia, fece sparare sulla popolazione in rivolta contro il vertiginoso aumento dei prezzi. Secondo le fonti, ci furono tra 1500 e 3 000 morti. Questo massacro aprì un periodo incerto che vide crescere la figura di Hugo Chavez, ufficiale che si era fatto conoscere nel 1992 per un colpo di stato fallito. Questi, riconvertitosi alla via elettorale, vinse le elezioni presidenziali del 1998 e presiedette il Venezuela dal 1999 alla sua morte nel 2013.

Dopo il ristagno degli anni ’80, Chavez apparve come un salvatore e godette di un forte sostegno popolare. Egli difese la sovranità nazionale e l’accesso delle classi popolari ad una parte delle ricchezze. Il suo successo non piacque alla borghesia e nemmeno allo stato maggiore dell'esercito, alla Chiesa, alla burocrazia sindacale e agli Stati Uniti. Tutti questi nemici si unirono per allontanarlo dal potere l'11 aprile 2002. Il 12, i golpisti celebrarono la loro vittoria. Chavez divenne loro prigioniero ed il presidente del padronato fu nominato capo dello Stato con la benedizione di Washington. Ma il 13, Chavez venne liberato e riprese il suo posto dopo che una mobilitazione popolare impressionante aveva cambiato la situazione.

Centinaia di migliaia di persone avevano invaso le vie della capitale Caracas e delle principali città, circondando caserme ed edifici pubblici. Le caserme erano passate sotto il controllo delle truppe e degli ufficiali contrari al colpo di Stato. Chavez, una volta liberato, prese la parola con un crocifisso in mano, per calmare le acque e lasciare ai suoi oppositori il tempo di riprendersi. I giudici, favorevoli ai golpisti, parlarono di un vuoto del potere, non di un colpo di Stato. Cinque anni dopo, vi fu l'amnistia generale.

Chavez permise in tal modo ai suoi oppositori di preparare un secondo tentativo, che cominciò nel dicembre 2002. Questa volta i golpisti erano i dirigenti di PDVSA (Petrolio del Venezuela società per azioni), la società nazionale che gestiva il settore petrolifero e controllava il 95% delle risorse del paese. Costoro parteciparono al colpo di stato dell'aprile 2002, ma Chavez aveva accettato di lasciare loro la direzione, grazie a cui organizzarono il sabotaggio della distribuzione dei carburanti. Ma si scontrarono con la resistenza dei lavoratori, che rimasero al loro posto e, in alcuni casi, fecero di più. Nella raffineria di Puerto La Cruz, gli operai decisero di far funzionare l'impresa sotto il loro controllo, cosa che non era né nel programma dei golpisti né in quello di Chavez. I lavoratori elessero responsabili di settore nelle loro assemblee generali e si scoprirono capaci di gestire un'impresa complessa, senza padrone.

I lavoratori si scontrarono anche con la vecchia burocrazia sindacale della Centrale dei lavoratori venezuelani, solidale con la direzione di PDVSA. Ciò condusse alla creazione di una nuova centrale, l'Unione nazionale dei lavoratori (UNT).

Questo nuovo colpo fallito rafforzò la popolarità di Chavez, che da quel momento dispose delle risorse di PDVSA. Lanciò le “missioni sociali„ destinate agli abitanti delle zone diseredate. Rafforzò le sue relazioni con Cuba: in cambio di consegne di petrolio, 40 000 medici cubani vennero a lavorare in Venezuela.

Nei primi anni, molte di queste missioni furono un successo, in particolare nei campi della sanità e dell'istruzione. Quasi 3 milioni di persone impararono a leggere e 2,5 milioni di pazienti ebbero accesso alle cure. Ma queste soluzioni di emergenza non risolvevano la questione della mancanza di soldi per mantenere e modernizzare gli ospedali. Centinaia di scioperi del personale sanitario si affiancarono alle denunce del deterioramento delle condizioni di lavoro e dell'accoglienza dei pazienti. D'altra parte, la riforma agraria fu un fallimento. I grandi proprietari difesero le loro terre ricorrendo a sicari contro i contadini. L'1% della popolazione, i grandi proprietari, possedeva sempre il 40% delle terre, mentre 70% di piccoli proprietari si spartivano il 5% delle terre. Il regime non riuscì a produrre i beni alimentari di prima necessità, che in gran parte venivano importati.

La riconciliazione di Chavez con la borghesia

Chavez distribuì medaglie ai lavoratori della raffineria di Puerto La Cruz, ma non spinse oltre il suo vantaggio. In quel momento, un nazionalista radicale quanto i dirigenti castristi nel 1959-1962 avrebbe avuto la possibilità di nazionalizzare l'apparato economico e di avere la meglio sui suoi oppositori di destra, col sostegno dei lavoratori e della popolazione, che si erano mobilitati due volte con successo. Ma Chavez prese la direzione opposta: per controbilanciare la forza dei lavoratori, cercò un compromesso con la borghesia.

Nel 2003, Chavez accusò: “c'è un fascista, un dirigente del colpo di Stato. Possiede una rete televisiva in Venezuela. Si chiama Gustavo Cisneros. (…) È un grande responsabile e lo denuncio dinanzi al popolo ed il mondo come golpista e fascista„. Ma nel giugno 2004, lo incontrava insieme all'ex presidente americano Jimmy Carter e veniva a patti con lui. La linea editoriale dei media di Cisneros mutò in favore di Chavez e il suo impero audiovisivo ebbe l’appoggio dello Stato contro i suoi concorrenti. La stessa operazione fu fatta con altri padroni quali Albert Vollmer delle distillerie di rum di Santa Teresa o Wilmer Rupperti, un ex dirigente della PDVSA, alla testa di un'impresa di trasporto dei prodotti petroliferi ma che non aveva seguito i golpisti. Quest'ultimo fu così soddisfatto di questo partenariato da pagare gli avvocati dei nipoti di Maduro quando questi sarebbero stati accusati, nel 2016, di avere trasportato 800 chilogrammi di cocaina negli Stati Uniti.

Dietro il miraggio del “socialismo del XXI secolo„

Chavez, nel mentre favoriva i capitalisti privati, radicalizzava il linguaggio in direzione delle classi popolari. Il 1° maggio 2005, evocò per la prima volta il “socialismo del XXI secolo„ davanti ad una folla di lavoratori ai quali spiegò che il passaggio al socialismo era appena cominciato. Peccato che questi lavoratori non avessero sentito ciò che aveva dichiarato nel novembre 2004, davanti ad un pubblico di soldati: “l'obiettivo a lungo termine in campo economico, su ciò nessuno può avere dubbi, consiste nel superare il modello capitalista. È impossibile attuare il modello economico capitalista. Ma il comunismo è un'alternativa? No! Non è ciò che attuiamo ora; qui abbiamo i grandi obiettivi della costituzione bolivariana, il modello d'economia sociale, l'economia umanista, l'economia egualitaria. Non ci prepariamo ad eliminare la proprietà privata, né ad attuare la pianificazione comunista. Non andiamo così lontano„.

Nel 2008, Chavez, campione del doppio linguaggio, organizzò un Raggruppamento socialista produttivo, dove non si parlava di socialismo ma di raccogliere fondi per le imprese. Aveva appena svalutato il bolivar. Il padronato avrebbe goduto di tassi preferenziali mentre la popolazione avrebbe subito gli effetti della perdita di valore della moneta con l'aumento dei prezzi. I capitalisti applaudivano: “con queste misure destinate agli esportatori, è più facile affrontare la concorrenza„, dichiarò uno di loro.

E dov’era il socialismo nelle partnerships predisposte con l'assicuratore di PDVSA Salazar Carreno, con il banchiere Victor Vargas, la cui banca di sconto prosperava sul debito del Venezuela, o con gli importatori di beni strumentali Derwick e soci, re della sovrafatturazione? A quelli e ad altri, occorre aggiungere membri del governo, capi del partito chavista e dell'esercito, una “boliborghesia„ che si sviluppava accanto alla borghesia tradizionale. Al vertice troneggiavano i militari. Tra il 1999 ed il 2013, più di 1 600 di loro assunsero responsabilità governative a diversi livelli.

I militari erano gli unici funzionari a ricevere aumenti di salario uguali o superiori all'inflazione. La loro coesione dietro il regime chavista derivava dalla loro implicazione negli affari, in particolare negli acquisti di armi presso la Russia, la Cina, il Brasile, la Spagna e gli Stati Uniti. Inoltre, controllavano le frontiere e i porti, quindi gli scambi economici, legali o meno. Dal 2013, Maduro moltiplicò le imprese dirette da militari in tutti i settori d'attività. Dal 2016, essi sopraintendevano anche l'approvvigio­namento. Diciotto prodotti di prima necessità, dal latte alle medicine passando per la carta igienica, erano sotto il controllo di altrettanti generali. L'esercito era diventato la colonna vertebrale del regime, tanto più che nel corso degli anni aveva perduto parte del sostegno popolare.

L'accordo del regime con la borghesia fu presentato come l'istituzione di una società mista vantaggiosa per tutti, ma fu innanzitutto al servizio della borghesia, che vide crescere la sua parte del prodotto nazionale. Il privato controlla oggi il 70% del prodotto interno lordo, il settore pubblico, chavista, il 30%. Il settore cooperativo, un tempo presentato come esempio da seguire, rappresenta soltanto l'1%. Tra il 2002 ed il 2012, le banche triplicarono la loro parte del prodotto nazionale.

Nonostante le dichiarazioni antimperialiste a volte roboanti di Chavez, le attività delle multinazionali non cessarono di rafforzarsi: parliamo di Chevron, Chrysler, Coca-Cola, General Motors, Halliburton, Kraft Heinz, McDonald's, Mitsubishi, Pepsi-Cola, Procter & Gamble, Toyota, come di duemila grandi imprese europee. Non si fece nulla per contrastare l'influenza economica della borghesia. Peggio ancora, si fece di tutto per favorire ad un tempo la borghesia nazionale ed il capitale straniero.

Una costante politica antioperaia

Come si può parlare di socialismo o di comunismo se non si incoraggia l'azione cosciente e organizzata della classe operaia stessa? Parallelamente all'orientamento economico favorevole alla borghesia, Chavez e poi Maduro hanno condotto una guerra senza tregua ai lavoratori in lotta.

La nuova centrale sindacale UNT, sin dalla sua creazione nel 2003, è paralizzata da un conflitto tra l'ala combattiva che ha fatto fallire l'abuso di autorità di PDVSA, ala nella quale si contano militanti operai della corrente morenista – una corrente oggi divisa, fondata dal trotskista argentino Nahuel Moreno, e che si è diffusa in vari paesi dell'America latina – e coloro che desiderano assoggettarsi al regime con uno slogan esplicito: “Prima Chavez„. Il conflitto si inasprisce al punto che sicari della mafia sindacale chavista ammazzano molti militanti operai, fra i quali Richard Gallardo, dirigente sindacale influente nello Stato di Aragua, dove i lavoratori si sono mobilitati varie volte contro gli attacchi di Chavez. Questo militante morenista è stato assassinato nel 2008 con due suoi compagni e il crimine è rimasto impunito. Il governo ha colpito anche Orlando Chirino, veterano morenista e coordinatore del sindacato UNT, licenziato dal suo lavoro in PDVSA. Ciò ha fatto partire una campagna nazionale in suo favore, che ha ottenuto la sua reintegrazione… mai applicata.

Al fine di ridurre i diritti dei lavoratori, il governo e gli ispettori del lavoro firmano contratti collettivi con sindacati compiacenti con il regime. Quando ci sono reazioni, il governo le reprime violentemente. Coloro che occupano la loro fabbrica sono sgombrati dalla polizia. Si attuano inoltre provvedimenti giuridici per criminalizzare le lotte operaie, senza tuttavia riuscire a farle scomparire.

Nel 2008, lo stabilimento siderurgico Sidor, appartenente al gruppo argentino Techint, era in pieno processo di rinazionalizzazione. A marzo, gli operai scioperarono per i salari, bloccati da due anni. I militanti operai stabilirono un piano di lotta con arresto della produzione e manifestazioni massicce. Gli scioperanti vennero definiti golpisti da un ministro che propose un referendum sui salari, respinto dagli operai con 3 338 voti contro 65.

Il 9 marzo, un centinaio di sindacati di tutto il paese, ma anche del Brasile e dell’Argentina, manifestarono la loro solidarietà. Gli scioperanti pretesero le dimissioni del ministro e l'impegno di Chavez ad intervenire. Quest'ultimo non ebbe altra scelta che quella di pronunciarsi per la nazionalizzazione. Successivamente, però, i salari vennero nuovamente congelati, le capacità di produzione furono ridotte ed il sindacato combattivo imbavagliato. Nondimeno, i lavoratori della Sidor continuarono a moltiplicare gli scioperi per difendere i loro diritti, al punto che nel 2014 tre operai vennero arrestati ed imprigionati per otto mesi.

Nel 2011, l'insoddisfazione operaia si espresse a livello di massa al riguardo dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Quelli di due milioni di lavoratori del settore pubblico non venivano rinnovati da sette anni. Decine di migliaia di operai metalmeccanici lavoravano con un contratto scaduto da un anno, e centomila lavoratori del petrolio con uno scaduto da due anni.

Nel 2012, Chavez impose per decreto una controriforma, la legge organica del lavoro e dei lavoratori, che limitava ancor di più il diritto di organizzarsi ed aumentava gli ostacoli predisposti dal ministero del lavoro contro la creazione di sezioni sindacali. Si introdusse inoltre una legge “antiterrorista„, che restringeva le zone dove i lavoratori potevano fare sciopero. Tutte queste misure avrebbero poi aiutato Maduro ad imporre una riduzione importante dei salari, già corrosi dall'inflazione, e condizioni di lavoro più precarie.

Il fallimento del chavismo non è quello del socialismo o del comunismo, è il fallimento delle fandonie riformiste con cui si vuole far credere alla possibilità di un compromesso tra gli interessi dei capitalisti e quelli dei lavoratori, quando invece tali interessi sono irrimediabilmente opposti.

Servire due padroni non è possibile. Ciò che viene dato alla borghesia diminuisce le risorse della classe operaia e degli oppressi. La funzione assunta da Chavez e dal suo regime non è consistita nel cercare un equilibrio tra borghesi e proletari, come da lui affermato, bensì nel placare le esigenze dei lavoratori e degli oppressi e così dare al capitale la possibilità di prosperare.

L'imperialismo tira fuori gli artigli

La crisi del regime chavista ha risvegliato gli appetiti delle grandi potenze, innanzitutto quelli dell'imperialismo americano. Le immense riserve di petrolio a poca distanza dagli Stati Uniti sono una delle poste in gioco. Ma c'è anche la riconquista politica in corso in America latina, dove tornano al potere uomini di destra più all'unisono con Washington, come in Argentina e in Brasile.

Sin dal 2015 sotto Obama, poi con Trump dal 2017, gli Stati Uniti hanno moltiplicato le sanzioni economiche contro un regime in difficoltà finanziarie, in un paese la cui popolazione si batte per sopravvivere. I beni del Venezuela, in oro o in valute, sono stati congelati in varie banche internazionali. La più emblematica di queste misure è stata il sequestro degli utili della Citgo, la filiale della PDVSA che opera negli Stati Uniti.

Donald Trump, al potere dal gennaio 2017, si è circondato di un gruppo di falchi che vogliono regolare i conti col Venezuela: il vicepresidente Michael Pence; il capo della sicurezza nazionale John Bolton, teorico della “guerra preventiva„; Elliott Abrams, corresponsabile trent'anni fa dei massacri delle popolazioni dell’America centrale ed artefice dell'invasione dell'Iraq nel 2003.

Michael Pence ha spinto il quasi sconosciuto deputato di destra Juan Guaidò a proclamarsi presidente al posto di Nicolas Maduro. Il 24 febbraio scorso, il tentativo di far penetrare un convoglio umanitario che avrebbe imposto Guaidò al vertice dello Stato, è fallito. L'obiettivo degli Stati Uniti non aveva nulla d'umanitario. Era un siluro lanciato contro il regime chavista. Ora John Bolton parla anche di far cadere il regime di Ortega in Nicaragua, per poi rivolgersi meglio contro il Venezuela. La prova di forza non è finita.

Una sessantina di Stati nel mondo, in particolare la Francia, la Germania e il Regno Unito, sostengono le manovre di Washington e riconoscono l'autoproclamato presidente Guaidò come legittimo. Anche lì, importa poco la sorte della popolazione del Venezuela, degli operai e dei contadini poveri che pagano caramente l'incuria del regime. I governi imperialisti vogliono solo partecipare al saccheggio che seguirebbe la caduta di Maduro.

Lev Trotsky, commentando nel 1938 l'atteggiamento di fronte all'imperialismo mostrato dal Messico di Cardenas - un regime non meno nazionalista di quello dei chavisti, ma che osò nazionalizzare le società petrolifere nordamericane ed attuare un'ampia riforma agraria -, scriveva: “senza soccombere alle illusioni e senza timore della calunnia, gli operai più coscienti sosterranno completamente il popolo messicano nella sua lotta contro gli imperialisti. L'espropriazione del petrolio, non è né socialismo né comunismo. Ma è una misura molto progressista d'autodifesa nazionale. (…) Il proletariato internazionale non ha alcuna ragione di identificare il suo programma con il programma del governo messicano. I rivoluzionari non hanno alcuna necessità di cambiare colore, adattarsi e giocare agli adulatori alla maniera di (…) questi cortigiani che al momento del pericolo svenderanno e denunceranno il campo più debole. Senza rinunciare alla loro identità, tutte le organizzazioni oneste della classe operaia del mondo intero […] hanno il dovere di assumere una posizione inconciliabile contro i ladroni imperialisti, la loro diplomazia, la loro stampa e i loro cortigiani fascisti. La causa del Messico (…) è la causa della classe operaia internazionale. La lotta per il petrolio messicano è solo una delle scaramucce d’avanguardia delle future battaglie tra gli oppressori e gli oppressi„. Si può oggi sostituire la parola Messico con Venezuela.

Nessun nazionalista, per quanto radicale sia, può però far avanzare la causa del comunismo. Solo il proletariato rivoluzionario, cioè cosciente dei suoi obiettivi ed organizzato nel suo partito, può intraprendere risolutamente questa battaglia, ponendosi alla testa di tutti gli oppressi.

4 marzo 2019