Pubblica amministrazione - Basta con l’ottica aziendalistica

Negli ultimi decenni si è imposta la cultura aziendalista al punto tale che in molti Enti della Pubblica amministrazione non si organizzano neanche più assemblee sindacali che tocchino importanti questioni nazionali come il rinnovo del contratto o i continui cambiamenti (in peggio) delle regole pensionistiche.

Per il contratto nazionale semplicemente si delega alle Organizzazioni nazionali per poi ripiegare in estenuanti trattative sulla contrattazione decentrata, puntualmente portata avanti con logiche “meritocratiche” che altro non vogliono dire se non che eventuali agevolazioni arriveranno solo ad alcuni lavoratori. La situazione è così paradossale che porta, in alcune situazioni, ad indire scioperi locali per il singolo Ente per recuperare qualche briciola che arrivi a tutti, nonostante i salariati sappiano bene che brioches e fette di torta saranno elargite a “pochi ma bravi” e soprattutto “ben voluti”. È come giocare alla roulette russa, si gioca tutti assieme ma solo qualcuno resta vivo.

L’aziendalizzazione degli Enti Pubblici non è certo partita per volere dei lavoratori, è stata presentata semmai, dai riformisti degli anni novanta, come la panacea di tutti i mali rispetto alla cattiva gestione degli Enti durante la prima Repubblica. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti: servizi ridotti all’osso, privatizzazioni ed esternalizzazioni senza sosta, abbassamento radicale del potere contrattuale dei dipendenti, riduzione progressiva e drastica del numero delle maestranze, precarizzazione continua (e legalizzata) dei rapporti di lavoro, aumento della gerarchizzazione.

Per finire, l’aspetto più micidiale è la perdita del senso di appartenenza alla vasta categoria dei lavoratori dipendenti fino all’identificazione quasi totale con l’Ente presso il quale si presta servizio come se fosse una piccola impresa a conduzione familiare isolata dal resto del mondo. Niente di sorprendente quindi stupirci se poi i lavoratori si troviano impreparati nel dover fronteggiare il peggioramento delle loro condizioni di lavoro, sia nel senso economico che in termini di sicurezza e salute.

Per poter recuperare il potere contrattuale e veder restituito tutto ciò che si è perso nel corso degli anni (a partire dagli aumenti economici irrisori rispetto al costo reale della vita, a causa anche del congelamento pluriennale dei rinnovi dei contratti nazionali giustificato con le crisi economiche) sarà indispensabile uscire dalla logica “io speriamo che me la cavo”. L’unica forza che hanno i lavoratori è quella numerica, che si ottiene solo collegandosi prima a tutti gli occupati della propria categoria a livello nazionale e poi a tutti i lavoratori e le lavoratrici in generale, sia del pubblico che del privato. Per finire bisognerebbe cominciare ad auspicare l’unità dei lavoratori a livello europeo, laddove le regole dell’UE prevalgono sulla volontà delle singole nazioni anche su questioni contrattuali (come nel caso dell’età pensionabile o nella definizione del costo medio del lavoro).

Ovviamente nessuno mette in discussione il legame affettivo delle persone con i diretti compagni e le dirette compagne di lavoro e sicuramente la solidarietà di classe parte dalla quotidianità, ma per poter rivendicare i diritti in modo adeguato i lavoratori devono spostare all’esterno il proprio senso di appartenenza, verso l’immenso mondo del lavoro dipendente e alla ricerca dell’unità perduta.

Corrispondenza Torino