Nella primavera del 1921, si scatenava la violenza fascista contro le organizzazioni contadine e operaie; in un primo tempo nelle campagne e poi nelle città del centro e del nord Italia. Nel corso dei primi sei mesi dell’anno, i locali di 83 leghe contadine e di 59 case del popolo furono attaccati. I fascisti distrussero 119 camere del lavoro, 151 circoli socialisti, 17 redazioni e tipografie di giornali.
“Il fascismo rappresenta il castigo inflitto al proletariato italiano” per essersi arrestato prima della presa del potere, analizzava la militante rivoluzionaria Clara Zetkin. Il movimento di occupazione delle fabbriche del settembre 1920, che aveva coronato il biennio rosso d’agitazione, di scioperi e di moti, era effettivamente terminato con una disfatta senza combattimento. La direzione del Partito socialista e quella della Confederazione del lavoro (CGL), il sindacato che gli era legato, capitolarono di fronte alla borghesia rifiutando di condurre la lotta fino al suo rovesciamento. Questa riprese l’offensiva nelle fabbriche, licenziando migliaia di operai, mentre la violenza fascista si organizzava per attaccare fisicamente le organizzazioni operaie.
Nelle campagne padane, i fascisti furono accolti come salvatori dai proprietari terrieri. Braccianti, giornalieri e mezzadri erano organizzati in leghe contadine che avevano impegnato duramente i padroni. Avevano imposto il controllo delle assunzioni e dei salari, in particolare per i giornalieri che lavoravano solo una metà dell’anno. Sui 280 comuni dell’Emilia, 223 erano socialisti e una moltitudine di cooperative prendeva il posto della piccola borghesia commerciante.
Una parte del movimento operaio pensava così di instaurare una sorta di socializzazione delle terre e di socialismo locale, senza dover rovesciare lo Stato e la borghesia. I proprietari terrieri e le truppe d’assalto fasciste si incaricarono di ricordare loro che non era tollerabile una qualsiasi posizione di forza dei lavoratori. Lo scrittore Emilio Lussu riporta in questi termini la conversazione avuta col figlio di un agrario, divenuto fascista: “Abbiamo incendiato, mi disse, 80 sedi di cooperative. Abbiamo distrutto tutte le sedi del Partito socialista. Ogni sabato sera c’è una grande spedizione punitiva. Siamo noi i padroni. - E le autorità vi lasciano fare? - Le autorità? Ma siamo noi le autorità! (…) Le autorità sono con noi. Ne avevano abbastanza di insolenze e di bandiere rosse. Esse non comandavano più”.
Le spedizioni punitive divennero il modo di operare fascista, con la complicità passiva o attiva delle forze di polizia e dell’esercito. Così accadde, per esempio, quando i fascisti lanciarono la loro offensiva in Istria, regione in parte slava, rivendicata dall’Italia all’indomani della Prima guerra mondiale. Le camicie nere si trovarono a fronteggiare i minatori armati e in sciopero. Allora l’esercito occupò la zona e aprì la via alle squadre fasciste. Quanto alla Giustizia, essa funzionava a senso unico, prosciogliendo i fascisti accusati di omicidio e condannando ogni militante operaio che si era difeso.
Ogni settimana, numerose centinaia di fascisti concentravano le loro forze su un paese, per liquidarvi ogni organizzazione contadina e operaia. Nella provincia di Mantova, l’associazione dei proprietari terrieri decretò il 20 aprile che solo gli operai agricoli iscritti al fascio avrebbero avuto del lavoro. Il vento era girato: gli agrari riprendevano il controllo e dettavano di nuovo la loro legge.
Le bande fasciste si scagliarono in seguito sulle città più grandi. Nei quartieri operai di Bologna, di Parma, di Firenze, di Siena o di Mantova, utilizzarono la stessa tattica usata nei villaggi di campagna. Le truppe si imbarcavano sui camion il sabato mattina, finanziate dall’associazione degli industriali locali. I fascisti passavano la giornata a sfilare per le vie del centro della città, bastonando tutti quelli che osavano portare un fazzoletto rosso e costringendo i passanti a fare il saluto romano. Massacravano e spesso assassinavano i militanti operai. La giornata si concludeva con l’incendio della camera del lavoro e del circolo socialista.
Forte delle sue prime vittorie, apparendo come un rullo compressore e come il movimento che non esitava a sfidare il governo rivendicando la “rivoluzione nazionale”, il movimento fascista reclutava. Passò da 17mila aderenti nel 1919 a più di 310mila alla fine dell’anno 1921. All'inizio aveva attirato migliaia di ufficiali e sottufficiali che, dopo la guerra, si sentivano declassati nella vita civile, poi dei piccoli borghesi delle campagne e delle città, vittime della crisi. Il fascismo cominciò in seguito a reclutare una piccola parte di proletari, particolarmente tra i disoccupati più marginalizzati, che ricevevano qualche soldo arruolandosi nelle squadracce.
In ogni caso, il proletariato restò nella sua grande maggioranza ostile al fascismo. Nel 1921, il movimento operaio era indebolito ma ben vivo. La CGL raggruppava 2.320.000 iscritti, il Partito socialista, distribuiti in 4367 sezioni, 217mila aderenti. Quanto al giovane Partito comunista, che si era separato dal Partito socialista quattro mesi prima, nel corso del congresso di Livorno del gennaio 1921, era più debole ma contava 50.000 aderenti di cui numerosi erano i giovani.
All'offensiva militare dei fascisti, il movimento operaio avrebbe dovuto opporre i suoi mezzi di difesa, creare le sue milizie operaie nelle fabbriche, nei quartieri, nelle città e nei paesi. Si poneva la questione di coordinare le forze per resistere alle squadre molto mobili dei fascisti, che si concentravano per attaccare uno stesso obiettivo.
Ma i dirigenti socialisti non si posero mai il problema di organizzare una tale risposta che avrebbe significato uscire dalla legalità borghese. Il deputato socialista Matteotti, che doveva essere assassinato dai fascisti nel 1924, si indirizzava in questo modo agli operai della sua circoscrizione elettorale, nel marzo del 1921: “Restate nelle vostre case; non rispondete alle provocazioni. Anche il silenzio, perfino la viltà, sono a volte eroici”. Per questi dirigenti, gli operai dovevano accordare fiducia all’apparato di Stato della borghesia per “fermare i fautori fascisti del disordine”. Nel momento in cui i fascisti si preparavano a schiacciare il proletariato, il loro consiglio era di lasciarsi condurre tranquillamente al mattatoio.
Quanto al Partito comunista, esso dovette affrontare la reazione fascista e i problemi politici nuovi che questa poneva in una condizione di ancora scarsa preparazione politica. La sua direzione era giovane in età e in esperienza, impregnata di una concezione astratta della politica rivoluzionaria. Il partito era ancora poco radicato nella classe operaia, la cui maggioranza restava sotto l’influenza dei socialisti. Si rivelerà incapace di superare il suo settarismo per organizzare la reazione al pericolo fascista e alla sua specificità di movimento di massa.
L'offensiva militare fascista della primavera 1921 raggiungerà una prima fase di “ritorno all’ordine” per la borghesia. Le masse operaie delle città e delle campagne che si erano messe “troppo comode”, secondo le parole del fascista citato da Emilio Lussu, avevano ricevuto dei colpi severi. Ma se la forza considerevole del movimento operaio alla fine si disgregò, è prima di tutto per l’assenza di una direzione con la volontà e la competenza per organizzare le sue forze e iniziare quella politica rivoluzionaria che poteva essere l’alternativa alla barbarie fascista.
N. C