Una "ripresa" sulle spalle dei lavoratori

Per l’economia nazionale, è tutto un rincorrersi di buone notizie e di annunci ottimistici. Tutto sta, ovviamente, nel capire che cosa si intende per economia nazionale. la Borsa, ad esempio, segnala un boom di profitti, che hanno toccato la cifra di 49,3 miliardi e dei quali si prevede un ulteriore aumento fino a 54,6 miliardi nell'anno venturo. La Confindustria, promotrice, il 20 novembre, di un convegno sulle condizioni dell’industria manifatturiera italiana, vede ancora più rosa. Diversamente dalle concorrenti francesi e tedesche, la manifattura italiana avrebbe infatti già superati i livelli produttivi precedenti alla pandemia. A guardare bene le cose, si scopre che è soprattutto il settore dell’edilizia, abbondantemente sostenuto dal denaro pubblico ad andare col vento in poppa, portandosi dietro le industrie connesse: legno, metallurgia, prodotti in metallo, ecc. Del resto, come dice il rapporto del convegno in questione, “la manifattura italiana ha senz’altro beneficiato anche del massiccio ricorso ai prestiti garantiti dallo Stato “. La spesa pubblica, tanto disprezzata quando si tratta di sostenere con qualche elemosina poveri e disoccupati, rimane una manna quando funge da stampella per i profitti capitalistici!

La “narrazione” che ci viene propinata, nella sua versione più elementare, suona più o meno così: la crisi dovuta al covid è stata affrontata grazie a Draghi che, per l’unanime stima che lo circonda in patria e all’estero, è riuscito a metter su un governo di quasi tutti i partiti e ad assicurarsi così l’erogazione di più di 200 miliardi di euro di fondi europei. Il PNRR, sotto la sua supervisione e tramite la sua garanzia, consente l’afflusso di questa massa di denaro, la sua saggia allocazione e il controllo del suo impiego secondo il piano definito. Tutto questo dovrebbe trasformare una crisi drammatica in una grande e irripetibile occasione di rilancio dell’economia a beneficio di tutta la popolazione.

Da parte loro, i partiti, facendo proprie le pressioni dei vari gruppi d’interesse provenienti principalmente dal mondo imprenditoriale e finanziario, si accapigliano per stornare su questa o quella posta di spesa la fetta maggiore possibile dei fondi europei. Ma la “rivoluzione” annunciata, per quanto riguarda le condizioni di vita e le maggiori urgenze della massa della popolazione non si vede nemmeno all’orizzonte. Ed è normale che sia così, perché al centro di ogni politica economica e di ogni “riforma” c’è la convinzione che per fare il bene della collettività si deve fare il bene delle imprese, e il bene delle imprese è il profitto e niente altro.

Dal punto di vista dei lavoratori, l’anno trascorso non è stato per niente buono. Le assunzioni, quando ci sono state, sono state per posti a tempo determinato e tra queste una buona parte a tempo parziale. L'INAPP, istituto per l’analisi delle politiche pubbliche, ha diffuso questi dati: su 3,3 milioni di assunzioni fatte il primo semestre dell’anno, un terzo ha riguardato contratti part-time. Il presidente dell’Istituto, Sebastiano Fadda, dice: “La ripresa dell'occupazione in Italia rischia di non essere strutturale perché sta puntando troppo sulla riduzione dei costi tramite il calo delle ore lavorate”. Questo potrebbe “incrementare la fascia dei lavoratori poveri” (La Stampa, 18 novembre 2021). Gli incentivi economici e contributivi non hanno cambiato le cose. Le assunzioni che hanno fruttato alle imprese diversi tipi di sgravi sono state 780 mila, poco meno di un quarto del totale. Per quanto riguarda le donne, il 60% sono part-time, per gli uomini questa percentuale è poco più del 32%. La Fondazione Di Vittorio della Cgil stima che ci siano attualmente 2,7 milioni di lavoratori in part-time involontario, cioè imposto dalle aziende. Se imprenditori e ministri esultano perché il capitalismo italiano “ha fatto meglio” di quello francese e tedesco, non rientra nelle loro valutazioni, evidentemente, il confronto con le condizioni salariali. Nell'inserto economico della Repubblica del 4 ottobre scorso, si leggono alcuni interessanti raffronti tra i salari italiani e quelli di altri paesi, basati su dati OCSE. Risulta che dal 1990 al 2020 i lavoratori italiani non solo non hanno visto i propri salari aumentare, ma li hanno visti diminuire. L'arco di tempo considerato permette di parlare di una tendenza consolidata. La tabella pubblicata mostra i salari medi lordi annui per gli occupati a tempo pieno in dollari con il criterio della parità del potere d’acquisto. Se prendiamo la Francia, abbiamo 34.700 dollari nel 1990 che salgono a 45.500 nel 2020. Per la Germania abbiamo rispettivamente 40.100 dollari e 53.700. In Italia si scende da 38.800 a 37.700 dollari annui medi lordi. Non che gli industriali tedeschi e francesi siano particolarmente generosi, ma quello che questi dati ci confermano è la fisionomia particolare del capitalismo italiano, che, più di altri, si basa sulla compressione salariale per sostenere la competitività delle proprie merci e conservare i propri saggi di profitto. Anche qui, gli economisti tirano in ballo la bacchetta magica del PNRR. Claudio Lucifora, professore dell’Università Cattolica, citato nell’articolo in questione dice che “ci sono in gioco risorse mai viste, che le imprese avranno la possibilità di investire”. La conclusione del suo ragionamento, che caldeggia un nuovo compromesso al ribasso sottoscritto dai sindacati, non avrebbe bisogno di commenti: “Ecco, lo scambio potrebbe essere spingere le imprese a puntare su occupazione, miglioramento delle condizioni di lavoro, riduzione dei contratti a termine e migliori opportunità per donne e giovani, offrendo in cambio la possibilità di rinviare a un secondo momento le richieste di aumento salariale”. Come se la storia di questi trent’anni, dal 1990 al 2021 non fosse già stata la storia di un “secondo momento” mai venuto!