Chi volesse trovare conferma in pieno XXI secolo delle affermazioni di Marx sul “logorio della forza lavoro” non dovrebbe fare altro che recarsi al cambio turno alla porta 33 di Mirafiori, varco di accesso alla famigerata officina 63, luogo di ghettizzazione non solo dei lavoratori sgraditi alla direzione aziendale per la loro propensione alla dignità, ma anche dei lavoratori definiti RCL con l’asettico acronimo significante “ridotte capacità lavorative”. Non è necessario andare a cercare le vittime del capitalismo in luoghi remoti del pianeta dove non è ancora spuntata l’alba della democrazia occidentale con il suo armamentario retorico di diritti umani e dignità della persona, è sufficiente recarsi davanti a questa fabbrica di Torino, che ha ridotto in tali condizioni buona parte dei “cittadini” che sono andati incontro al destino proletario di dover vendere le proprie energie vitali giorno dopo giorno, fino ai limiti dello sfinimento. Ma questa ridotta capacità di lavoro attuale da dove deriva? Cosa ha causato a questi operai un deterioramento irreversibile delle attività psico-motorie per cui sono entrati nel limbo delle diagnosi di quella branca della scienza medica che viene definita medicina del lavoro? Dieci, venti, trent’anni a ripetere lo stesso gesto, a permanere nella stessa postura, ad essere colpiti dallo stesso inquinamento acustico, luminoso, ambientale. Dieci, venti, trenta e più anni di attentati al benessere muscolo-scheletrico, all’equilibrio psicologico, all’integrità fisica, all’armonia della condizione psicofisica destrutturata irrimediabilmente da una attività lavorativa non solo alienante e ripetitiva, ma anche in molti casi indifferente e gravemente inadempiente rispetto alla normativa sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori. L’ apparentemente distaccata definizione di “logorio della forza lavoro” trova una triste e drammatica incarnazione in questi operai, le cui persone per anni sono stata poste in balia di ritmi e procedure di ottimizzazione della produzione che, se da un lato aumentavano il profitto per l’impresa, dall’altro minavano nel profondo la loro salute, in dispregio non solo di qualsiasi cura e preservazione delle cosiddette “risorse umane”, ma anche di un diritto costituzionale, quello alla salute, anch’esso evocato solo quando non disturba le esigenze della produttività. Questi lavoratori, invece di avere accesso ad un periodo indefinito di meritata liberazione dal lavoro usufruendo delle risorse sociali che loro stessi con la loro alienazione hanno contribuito ad accumulare, vengono ancora passati al torchio di un dispotismo di fabbrica che li tratta come zavorra da cui spremere ancora qualche lacerto di produzione. Ultimamente lo zelo e la protervia dei figuri che incarnano tale dispotismo si sono accentuati, forse per la voglia di pavoneggiarsi nei confronti dei loro nuovi sodali d’oltralpe, con il risultato che una condizione umana ridotta sempre più ai minimi termini presenta ormai i caratteri di una persecuzione spietata. A ciò si aggiunge il rischio di infezione, la frequente assenza di personale medico, nella totale inosservanza perfino della già inefficace legislazione riguardante la sicurezza sul lavoro, l’organico insufficiente rispetto ai volumi ed ai ritmi imposti. Paradossale e tristemente ironico il fatto che ultimamente proprio questi lavoratori siano addetti alla produzione di un presidio sanitario, produzione motivata dalla speculazione sulle pubbliche disgrazie che caratterizza in particolare i nostri padroni del vapore collusi con l’istituzione, mentre essi stessi avrebbero bisogno di continue attenzioni se non di assidue cure da parte del sistema sanitario. Un’operaia qualche tempo fa davanti ai cancelli ci diceva che il problema per i lavoratori è quello dell’individualismo, del fatto che i compagni di lavoro non riescano ad uscire dalla concezione personalistica del rapporto con l’azienda, non sappiano mettere in campo un moto solidale che porti alla costituzione di un interlocutore autorevole che vada a trattare i problemi operai da una posizione di maggiore forza. Sembrerà paradossale ma queste considerazioni fatte da una lavoratrice non particolarmente attiva dal punto di vista sindacale e meno che mai da quello politico ci ha suggerito una nota di ottimismo: la classe operaia, nei suoi vasti e profondi strati, sa quali sono i suoi problemi, li percepisce infallibilmente al di là della patina ideologica di cui la riveste la cultura borghese. Nella fabbrica afferra immediatamente il nodo centrale del conflitto. Il problema è l’esplicitazione, l’emersione cosciente e collettiva di un pensiero che superi la fase del travaglio interiore e della passività e si metta sulla strada della costruzione di momenti di forza. Il numero non difetta anzi, con la nuova concentrazione realizzata dal neonato gruppo automobilistico, i lavoratori si contano ormai a centinaia di migliaia. Da questo punto di vista la trasmissione delle esperienze di lotta tra realtà diverse può essere trainante per una costruzione comune che serva non solo a tutelare quei compagni di lavoro umiliati e offesi di cui sopra ma anche a tutti i lavoratori in una prospettiva contingente e storica.
Corrispondenza Torino