Primi risultati per la lotta dei riders

Se c’è qualcosa da imparare - o da re-imparare - dalle circostanze imposte nella pandemia, è una lezione vecchia, ma valida da sempre, e sicuramente per sempre: la lotta paga. Con il corollario conseguente: non ci sono risultati senza lotte.


Durante la pandemia hanno svolto un ruolo sempre più importante, perché hanno permesso alle attività di ristorazione, e non solo, di continuare a lavorare; hanno portato pranzi e cene pronti anche nel periodo di confinamento totale, rischiando di ammalarsi e di infettare i familiari; hanno continuato lo stesso a portare le consegne ai piani, perché altrimenti partivano le recensioni negative, e il lavoro diminuiva; per di più, se sono entrati in contatto con persone ammalate, sono stati costretti a rimanere in quarantena fiduciaria, senza nessuna indennità; volendo, possono portare di tutto, da un paio di scarpe alla spesa in farmacia, a tutto ciò che è trasportabile in bicicletta o in motorino. Lavorano senza tutele legali, senza indennità di malattia, senza maternità, senza ferie, senza contributi pensionistici, senza nessuna forma di ammortizzatori sociali. Sono considerati in tutto e per tutto lavoratori autonomi, anche se un padrone ce l’hanno, eccome: sono le aziende di consegne a domicilio di cibo e/o altro, multinazionali come Deliveroo, Glovo, SocialFood, Uber Eats etc., riuniti in Assodelivery, l’associazione italiana di queste imprese. Questi nuovi padroni digitali hanno escogitato una nuova forma di sfruttamento: la consegna a domicilio tramite fattorini - comunemente denominati, con la consueta passione per l’inglese che fa più fico, “riders” - un lavoro definito “nuovo”, “digitale”, ma che, nella realtà, di digitale ha solo il comando. Era nato come “lavoretto” per studenti con qualche ora e una bicicletta a disposizione, ma una volta fiutato l’affare, è cresciuto negli anni, con una particolarità che è da sempre il sogno di ogni azienda: macinare profitti senza rischi. In questo caso, trasferendo il rischio d’impresa direttamente sul dipendente: il rider non viene assunto, scarica un algoritmo; è l’algoritmo che gli comunica il lavoro da eseguire; è l’algoritmo che funge da caporale, che sorveglia, calcola i tempi e decide la retribuzione; il rider non viene licenziato, semplicemente gli si disattiva l’applicazione; quel che gli viene contrabbandato come lavoro autonomo, in pratica è un lavoro a cottimo; se lavora, guadagna qualcosa, ma deve correre; se non può lavorare, lavorerà qualcun altro al posto suo; se si ammala per il freddo, il caldo, la fatica, è un problema suo; per gli infortuni, si faccia un’assicurazione, perché non sono coperti; la concorrenza è con altri disperati sottoposti alle medesime condizioni. Basta dare un’occhiata ai siti di una di queste imprese per farsi un’idea: secondo loro, il mestiere di galoppino è molto gratificante, ti permette di dispensare sorrisi, ti fa lavorare quando vuoi, ti fa guadagnare in fretta, etc.: nel frattempo, comincia col mettere a disposizione il tuo telefono, la tua bici o il tuo motorino, e comprati uno zaino termico (uno di quei cubi colorati che fanno da contenitori), che manco quello ti si fornisce gratis. Anche le giacche impermeabili, i gilet, anche le mascherine anti-covid ti vendono, anche gli scatoloni di cartone, i sacchetti, le posate di carta (sostenibili, mi raccomando!), i piatti e quant’altro, anche il casco con il logo, e perfino il campanello per la bicicletta. Tutto a carico del rider. Un affare, non c’è che dire. Contro questa situazione i riders hanno cominciato a lottare già da anni, con dimostrazioni, marce di protesta e infine con i ferri del mestiere, che chiunque venda la sua forza lavoro prima o poi si troverà a maneggiare: l’organizzazione e lo sciopero. Naturalmente i politici e i Parlamenti hanno fatto orecchio da mercante: nessuno si è dato pena, tutti hanno lasciato che le aziende ingrassassero a piacimento. Anzi, c’è stato chi ha cercato nel mestiere dei riders una breccia per - caso mai...- estendere una forma di precarietà tanto conveniente per le imprese. E’ il caso di Ugl, il sindacato di destra legato a doppio filo con la Lega, che a settembre ha firmato un accordo truffa con Assodelivery, millantando iscritti fantasma, e promuovendo una specie di contratto, che conferma sia il cottimo integrale che l’assenza delle tutele per malattia, e ratifica il carattere “autonomo” del lavoro: alcune aziende hanno addirittura richiesto l’accettazione preventiva di questa specie di capestro per consentire di lavorare, alla faccia dell’autonomia. Una faccenda indegna, che i riders hanno rifiutato in blocco, la spinta finale a un movimento che si andava organizzando e si è concretizzato prima con lo sciopero di fine ottobre proprio contro il contratto truffa, poi con la clamorosa sentenza della Procura di Milano contro quattro aziende: Just Eat, Uber Eats, Glovo-Foodinho e Deliveroo, alle quali è stato imposto di assumere più di 60 mila riders e pagare 733 milioni di euro in risarcimenti. A fine febbraio la prima assemblea nazionale convocata dai ciclo-fattorini ha proclamato una giornata di sciopero nazionale, per la prima volta per tutti i lavoratori precari, per il 26 marzo: una giornata che ha segnato davvero una lotta unitaria e che ha largamente bloccato le consegne in oltre trenta città italiane. Tre giorni dopo, la Just Eat ha accettato di applicare ai riders il contratto previsto per la logistica, assumendoli come lavoratori dipendenti. “Il lavoro del ciclo-fattorino sarà regolato da un modello completamente diverso dal cottimo. Ogni lavoratore avrà una tariffa oraria chiara e godrà di permessi, ferie, Tfr, tariffe per il lavoro notturno, indennità per malattie infortuni e genitorialità. È previsto il diritto di prelazione per chi ha lavorato per Just Eat nell’ultimo anno” (Il Manifesto, 30.3.21). Se esiste una luce in fondo al tunnel, possono accenderla soltanto le lotte.

Aemme