Quando la pandemia rende piu' ricchi

La pandemia ci ha confermato una vecchia lezione che non aveva bisogno di una rinfrescata per apparire sempre chiara e visibile: la miseria non è per tutti. Anche gli eventi più terribili possono diventare un'opportunità per la classe sfruttatrice


Alla fine del primo round dell'epidemia di Covid 19, subito dopo la ripresa seguita al blocco quasi totale delle attività, la banca svizzera UBS tracciava un primo bilancio della crisi, per bocca del capo dei family office Josef Stadler, in un'intervista al quotidiano inglese "The Guardian". Per chi non lo sapesse, dicesi "family office" una struttura di servizi a cui viene affidata la gestione finanziaria e amministrativa dei grandi patrimoni, allo scopo di conservarli, accrescerli, e gestire il rischio degli investimenti finanziari. Alle danarose famiglie di imprenditori titolari dei suddetti grandi patrimoni, Josef Stadler è stato in grado di dare ottime notizie. Alla fine dell'estate, alla faccia della pandemia, "i patrimoni globali dei miliardari avevano toccato la cifra record di 10.200 miliardi di dollari: stracciato il precedente picco di 8.900 miliardi di fine 2017" (La Repubblica, 8.10.20). Mentre milioni di posti di lavoro si perdevano ovunque nel mondo e i redditi da lavoro crollavano, il responsabile dei family office della UBS poteva annunciare con soddisfazione che "la concentrazione della ricchezza è ai picchi dal 1905". Va da sé che il caso ha privilegiato alcuni in misura maggiore rispetto ad altri. La maggiore domanda di prodotti farmaceutici e macchinari sanitari, come anche di prodotti tecnologici legati alla necessità delle comunicazioni in quarantena, hanno favorito sicuramente questi settori, i cui imprenditori hanno visto aumentare le loro fortune del 17%. Ma anche i patrimoni di chi si occupa di altri settori non sono andati male, dato che hanno incrementato la crescita di un buon 6%. Insomma, a quanto pare "il patrimonio delle persone più ricche al mondo è aumentato di oltre un quarto durante la pandemia proprio mentre milioni di persone perdevano il lavoro o lottavano per tirare avanti [...] Hanno fatto buoni affari perché non solo hanno cavalcato la tempesta al ribasso, ma hanno anche guadagnato con il rimbalzo dei mercati azionari". (Corriere della Sera, 9.10.20)

Il nostro Paese non ha fatto eccezione. In Italia i miliardari ora sono 40, rispetto ai 26 del 2019. Se si considera che nel 2009, all'inizio della crisi finanziaria, erano "soltanto" 12, viene da dire che la classe sociale dei capitalisti partorisce ovunque e ad ogni crisi sempre più miliardari e sempre più pezzenti. E mentre non smette di arricchirsi, non smette neanche di esibirsi in continue critiche e recriminazioni sulle proprie presunte, inderogabili e disattese necessità. Tutto dev'essere compatibile e adeguato al modello di società che permette a questa classe di continuare indisturbata i propri affari; il funzionamento della società stessa deve essere ritagliato unicamente sul suo bisogno di profitti. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, eletto a maggio scorso (non a caso imprenditore nel settore biomedicale) si è immediatamente distinto per le sue alte lamentazioni circa l'erogazione di sussidi al popolino, spiegando che "non risolvono nient se se ne dà una goccia a tutti" e che vanno concentrati per "sostenere i settori in difficoltà" perché, ha tuonato "Non vogliamo diventare un Sussidistan". (Il Fatto Quotidiano, 1.10.20).

Fin troppo facile rispondere. Perfino la stampa borghese, o almeno la sua quasi totalità, ha dovuto accorgersi che il capo lombardo di Confindustria l'aveva sparata grossa: bastava mettere mano ai numeri dei sussidi e dei contributi che le imprese hanno ricevuto dallo Stato in occasione della crisi pandemica. Sono una miriade, e sono il grosso delle cifre spese. Secondo l'Ufficio studi della Uil, alle imprese è andato in forma diretta il 48% dei miliardi di euro messi a disposizione, per una cifra di 53 miliardi in sconti fiscali e agevolazioni varie, accesso al credito con finanziamenti garantiti dallo Stato, contributi a fondo perduto, fondi a disposizione presso Cassa Depositi Prestiti destinati a grandi aziende in difficoltà. A queste somme andrebbero aggiunti altri 13 miliardi, stanziati per interventi a favore di professionisti con attività d'impresa, che comprendono rateizzazione dei versamenti fiscali, contributi a fondo perduto per titolari di partite IVA, contributi per l'adeguamento dei luoghi di lavoro, credito d'imposta per i canoni di locazione, etc. In tutto il conto sale a 67 miliardi, il 60% del totale. A questi andrebbe aggiunto anche il 26% delle spese destinato alla cassa integrazione, configurabile peraltro anch'esso come un ulteriore aiuto alle aziende, oltreché ai lavoratori. Nel complesso cifra tutto sommato modesta, considerando che ne hanno approfittato per mettere in CIG i dipendenti anche aziende senza cali di ricavi. Per i lavoratori dipendenti e autonomi che non hanno potuto lavorare nei mesi di chiusura totale, sono rimasti infine poco più degli spiccioli, pari a circa il 10% della spesa totale. Perfino il vituperato reddito di cittadinanza tutto sommato costa poco. 7 miliardi invece di 20.

Del resto, pandemia o non pandemia, ogni anno decine di miliardi finiscono alle imprese, sotto le forme più varie. "Al Ministero dello Sviluppo Economico c'è persino un'intera task force dedicata esclusivamente agli incentivi alle imprese[...]Solo nel 2019 il Governo italiano ha destinato circa 20 miliardi agli imprenditori" (FQ Millennium, giugno 2020). Il vero Sussidistan abita in Confindustria.

Aemme