Torino e provincia - Alle prese con la seconda ondata della pandemia

Parafrasando un noto economista europeo, il quale si era pronunciato così nell’ambito di un meeting a proposito dell’ennesimo scandalo sui paradisi fiscali, “l’unica cosa che stupisce è che siamo qui a stupirci”. Tutti sapevano che in autunno le probabilità di una seconda ondata della pandemia sarebbero state altissime, tutti sapevano che bisognava avere già le strutture sanitarie pronte, il personale medico e paramedico sufficiente e addestrato, i tracciamenti delle positività ben organizzati e strutturati, le Usca (unità di intervento a domicilio) pronte, i trasporti pubblici potenziati, gli empori pieni di cibo da distribuire a chi inevitabilmente sarebbe rimasto senza soldi e senza risorse per affrontare una seconda ondata della pandemia che potrebbe anche essere più letale della prima.

In verità tutti (in primis le istituzioni e molti cittadini di conseguenza) si sono adagiati sul drastico rallentamento delle positività delle scorse estate e primavera e sull’idea che il peggio era passato e che quindi le attività produttive (turismo interno ed esterno inclusi) e i conseguenti enormi profitti non dovevano essere rallentati a nessun costo. Ovviamente nessuno si è sognato di imporre alle strutture sanitarie private di trasformarsi in reparti covid con tanto di terapie intensive, ma queste hanno semmai colto l’occasione per proporre tamponi rapidi e risultati rapidi e senza code estenuanti a prezzi che vanno dai 70 ai 120 euro a test, non venendo così meno alla loro naturale tendenza a speculare sui bisogni dei cittadini.

Lo scenario che si è presentato nella provincia di Torino è quindi lo stesso identico che si constata nel resto dell’Europa e di parte del mondo (se prendiamo per vera e assodata la notizia che in Cina e in estremo oriente la pandemia si sarebbe fermata): lunghe ed estenuanti code ai drive-in per effettuare i tamponi, periodi molto lunghi per ottenere i risultati (da 10 a 15 giorni), strutture sanitarie in tilt, personale che si infetta e si ammala gravemente anche per le lunghe ore di servizio e per il massacrante carico di lavoro e di stress. Il rimpallo di responsabilità tra il governo e le regioni e tra queste e le singole “aziende sanitarie” non hanno sicuramente contribuito a migliorare la situazione, ma solo a spostare di scrivania e di volta in volta il malcontento popolare che inevitabilmente si sarebbe scatenato all’annuncio dell’ennesima chiusura.

Nel frattempo, i medici si trovano sempre di più a dover decidere (da soli, con l’enorme peso morale che ne può derivare) chi intubare tra un grande anziano e un paziente più giovane, a scegliere chi lasciare nelle barelle in corridoio e chi spostare nei reparti sub intensivi. Questo film dell’orrore è reso ancora più macabro dai meschini risvolti elettorali, per cui il centrosinistra accusa la giunta regionale di destra di avere gravi responsabilità e questa accusa il governo di centrosinistra di non essersi preso le sue di responsabilità. In pratica “l’ultimo governo, regionale o statale che sia, è sempre il primo” ma c’è chi si ricorda bene che le giunte di centrosinistra o di centrodestra si sono sempre passate la testimonianza, negli ultimi decenni, nella riduzione dei posti letto, di personale, nella soppressione e accorpamento di interi ospedali e nel foraggiamento delle strutture private.

La reazione (a tratti anche violenta) dei cittadini, in particolare dei piccoli imprenditori, degli ambulanti, dei lavoratori e degli artisti precari costretti a chiudere o a ridurre le loro attività, era prevedibile tanto quanto l’enorme disagio della sanità. In una provincia in cui l’antico splendore industriale è praticamente ridotto al lumicino, le piccole attività sono inevitabilmente il cuore pulsante dell’economia e del sostentamento e a maggior ragione doveva già essere pronto un energico piano di intervento economico. Ma l’unica spinta al rilancio economico a cui abbiamo assistito, la scorsa estate, è stata quella collegata agli enormi appetiti sviluppatesi attorno alla tristemente famosa grande opera e invece di trovare le risorse per assumere personale socio-sanitario hanno semmai pensato di “arrestare un’operatrice socio-sanitaria” attivista del movimento anti-grandi opere. È evidente che la classe dirigente è stata troppo impegnata a pensare a come far arricchire i propri amici con i fondi del recovery fund (e non solo), piuttosto che a recuperare tutte le risorse economiche ed umane possibili per mettere al sicuro i cittadini.

Corrispondenza Torino