Etiopia - La guerra civile divampa

L’Etiopia, con i suoi cento milioni di abitanti, è il secondo paese più popoloso del continente africano. La popolazione è composta di almeno 80 etnie. Un grande paese africano, la cui evoluzione e il cui sviluppo pacifico erano stati decantati da tutti i mass-media. Secondo la Banca Mondiale, l’Etiopia è uno dei più dinamici stati dell’Africa, con un incremento del PIL medio annuo del 10,8% dal 2004 al 2014 e di poco inferiore negli anni successivi.

Ma, a turbare questo quadro roseo c’è il fatto che un quarto della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e che decine di migliaia di contadini sono stati sfollati dalle proprie terre con le buone o con le cattive, a beneficio di grandi società specializzate nella coltivazione del caffè o delle piante da semi oleosi.

Ulteriore pennellata di realismo: i rapporti di Amnesty International e di altre agenzie non governative che non hanno cessato, prima e dopo la salita al potere di Abiy Ahmed, di denunciare uccisioni, violenze varie e torture ad opera di gruppi paramilitari a base etnica. A tutto questo si aggiunge ora la guerra civile.

I dirigenti dello stato del Tigrai, a nord del paese, si sono ribellati allo stato centrale al momento che il governo ha rimandato, a data da destinarsi le elezioni legislative nazionali. Il motivo ufficiale del rinvio è la pandemia del Covid-19, ma le autorità tigrine sostengono che si tratta di un pretesto per prolungare abusivamente il potere di Ahmed.. Così, il 3 novembre sono iniziate le ostilità.

Gli abitanti del Tigrai rappresentano circa il 6% della popolazione etiope, ma fino a due anni fa i governi e gli alti funzionari dello stato erano uomini che venivano da questa regione. Esiste quindi un motivo particolare di risentimento politico nei confronti di Ahmed che è di etnia Oromo. Come in molte altre parti dell’Africa, le rivalità etniche sono solo la forma particolare di contrasti politico-economici. Ma i capi dei “ribelli” tigrini, così come gli esponenti del partito di governo, sanno toccare le corde giuste per rialimentare vecchi rancori e vecchi pregiudizi.

Del resto, era anche la politica italiana in Etiopia, quando il regime fascista pretese di fare di questo stato una parte del proprio impero.

Oggi sono diversi i paesi che hanno forti interessi in Etiopia, a cominciare dalla Cina, che rappresenta un terzo delle sue importazioni. Ma anche l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo sono tra i primi investitori in Etiopia. Inevitabile che sul terreno etiope si sviluppino allora contrasti e contese tra i vari stati interessati al boccone etiope (tra l’altro esportatore di oro) e, in generale, al Corno d’Africa. Gli sviluppi ulteriori di una guerra civile che sta già facendo migliaia di morti e almeno quarantamila profughi, consentirà di vederci più chiaro nei prossimi mesi e forse di capire quali potenze soffiano sul fuoco del confronto armato. Se non interverranno altri fattori, infatti, non sembra che la sconfitta del Tigrai, regione montuosa e di difficile accesso per un esercito regolare, sia a portata di mano per le forze governative.

Come esigono le buone maniere di un paese “civile”, il governo italiano si è unito ai vari appelli alla pace e al negoziato. Oltre tutto Abiy Ahmad è stato insignito nel Nobel per la pace lo scorso anno, per aver messo fine alla guerra con l’Eritrea. Ed è proprio prendendo a pretesto questo orientamento “pacifico” e “democratico” del nuovo governo etiope che il primo governo Conte stipulò, nel giugno del 2019, un accordo con l’Etiopia per la fornitura di armi, con l’impegno ad una “collaborazione in materia di industria della difesa”. L’impero non c’è più, ma la presa sull’Africa Orientale non si è del tutto allentata da parte dell’imperialismo italiano. Grandi imprese italiane di costruzione lavorano da tempo in Etiopia e l’Italia vi rappresenta il primo esportatore europeo.

La pace può essere la condizione migliore per continuare gli affari, ma anche la guerra potrebbe avere i suoi vantaggi per l’imperialismo, cominciando appunto dalla fornitura di armi moderne.

Da parte loro, gli operai, che lavorano gomito a gomito nelle fabbriche tessili, pure provenendo da parti del paese differenti, non hanno alcun interesse a farsi trascinare nella trappola delle rivalità etniche.