Due milioni di disoccupati non possono aspettare!

I risultati delle elezioni regionali e del referendum sono stati giudicati quasi unanimemente come una felice prova di riconciliazione del “popolo” con le istituzioni. Si è lodato soprattutto l’alto numero di partecipanti al voto nonostante tutte le paure indotte dalla pandemia. “Il virus non frena il voto” era il titolone di prima pagina della Repubblica lunedì 21 settembre, più o meno identici quelli del Corriere della sera e della Stampa.

Certo, la partecipazione sarà anche stata “sopra le attese” ma ha votato poco più della metà degli aventi diritto. Un po’ troppo poco per festeggiare. Anche considerando che il precedente referendum costituzionale, quattro anni fa, aveva visto, in un solo giorno, la partecipazione del 67% degli elettori.

Sembra che, ancora nel giudizio dei maggiori “opinionisti”, referendum ed elezioni abbiano reso più stabile il governo e allontanata un’eventuale crisi politica, sia perché il peso della Lega di Salvini è stato ridimensionato, sia perché la Toscana resta al centrosinistra, con la Puglia e la Campania e solo le Marche passano alla destra con un presidente di “Fratelli d’Italia”. Il partito di Di Maio ha subìto un’altra sconfitta nel voto regionale, compensata, almeno nell’immediato, dalla vittoria dei “Sì” alla riduzione del numero dei parlamentari.

Detto tutto questo, e non addentrandosi ulteriormente nei vari retroscena, rimane, per la classe lavoratrice, la solita domanda: “Che cosa cambierà per noi?”

Se veramente il governo sarà più stabile, gli sarà anche più facile far passare una linea di politica economica che lasci mano libera al padronato nei confronti della classe operaia e dei lavoratori salariati in genere.

In ogni caso, la crisi economica è un fatto mondiale, che prescinde evidentemente dalle consultazioni elettorali dei singoli paesi e, ancora di più, dalle guerricciole politiche tra partiti, partitini e correnti. Ed è una crisi che si trascina da anni e che la pandemia ha esasperato.

Conte e i suoi ministri, ci raccontano questa crisi come una grande occasione di rinnovamento. I 209 miliardi del Recovery Fund sono il carburante dell’ottimismo per “tornare a crescere”. Così, da parte governativa si dipinge un futuro roseo di aziende che coccolano i loro dipendenti e non producono rifiuti inquinanti, di ponti costruiti come dio comanda e senza impatto ambientale, di “digitalizzazione” estesa a tutti i settori di attività pubblica e privata, di livelli superiori di istruzione di massa, di un sistema sanitario efficiente e così via.

L’emergenza Covid-19, come una guerra, sembra giustificare una disponibilità ad allargare senza limiti il debito pubblico. Saltano le vecchie regole in nome dell’emergenza. La borghesia, industriale o finanziaria, cercherà di ottenere il massimo da questo afflusso insperato di denaro. Ma il debito che si accumula peserà nei prossimi anni sulle classi sociali più deboli se queste non troveranno la maniera di proteggersi.

Le “caratteristiche” dell’imprenditoria italiana, così come quelle degli apparati di Stato autorizzano, oltre tutto, a mettere in dubbio la reale portata del “rinnovamento” annunciato da Conte. Basti pensare che, in tempi normali, lo Stato e le sue varie articolazioni lasciano inutilizzati circa il 65% dei fondi europei destinati all’Italia. Secondo diversi commentatori, questo è in gran parte dovuto all’incompetenza dei funzionari di alto livello, spesso semplicemente incapaci di scrivere capitolati d’appalto secondo gli standard richiesti. Oltre a questo, c’è da ricordare che l’Italia occupa il quarto posto in Europa per le frodi collegate ai finanziamenti europei, dietro a Spagna, Polonia e Romania.

In ogni caso, la borghesia grande, media e piccola arrota i denti e si prepara a lottare duramente. Ogni settore cercherà di dimostrare di essere più indispensabile e più “strategico” degli altri e così farà ogni azienda di un certo peso. Il boccone, se poi alla fine arriverà, è davvero troppo ghiotto! E, naturalmente, non si può sprecarlo in… “assistenzialismo”.

Bonomi, presidente della Confindustria, intervistato dopo il suo primo incontro con i segretari nazionali delle confederazioni sindacali, il 7 settembre, ha sostenuto che nel suo “Patto per la fabbrica” non c’è posto per aumenti salariali, e sulla riduzione degli orari di lavoro ha detto: “Non è quella la strada da perseguire. Bisogna perseguire altre strade, strade moderne per coniugare il salario alla produttività”.

Invece le strade da perseguire nell’immediato, o meglio gli obiettivi per cui i lavoratori dovrebbero lottare, sono proprio quelli della riduzione degli orari contrattuali di lavoro a parità di salario e della generalizzazione, senza scadenze di tempo, del divieto dei licenziamenti.

Non c’è da scherzare; i disoccupati, secondo le cifre ufficiali, sono più di due milioni; tra aprile e giugno si sono persi altri 470mila posti di lavoro rispetto al primo trimestre, e rispetto al secondo trimestre 2019 se ne sono persi 841mila, in grandissima parte giovani con contratti a termine.

Lasciamo che gli industriali e il governo inseguano i loro sogni, ci credano o meno, ai lavoratori servono risultati immediati per non cadere nella miseria o per uscirne se già ci sono sprofondati.