Un’ipoteca sul futuro

Il divario tra ricchezza e povertà nel mondo è in costante aumento…un po’ come la temperatura media del pianeta e il numero dei contagi da coronavirus. Un’emergenza che non è meno grave dell’altra


Sono passati pochi mesi dal vertice di Davos, che da cinquant’anni riunisce l’élite del capitalismo mondiale. Eppure, mentre le popolazioni del mondo si aggirano tra le macerie lasciate dalla pandemia ancora in corso, sembrano passati secoli. Oxfam - la confederazione internazionale delle associazioni no-profit - già all'epoca si incaricava di aggiornarci sulle condizioni generali dell’umanità in termini di ricchezza, povertà, ingiustizie sociali, emergenze nel mondo, e non era un bel vedere. Nonostante le ambizioni del consesso di Davos - poco più che una riunione mondana di “presidenti e primi ministri, banchieri centrali e boss di grandi aziende, industriali, miliardari, influenti accademici, sportivi, attori, rockstar, innovatori, giovani e non”, come lo aveva definito il Sole 24 Ore - si ostinassero a presentare il capitalismo nella sua versione più innocua, anzi etica e solidale, a guardare in faccia i dati si tornava con i piedi per terra, di fronte a una situazione ormai abbastanza scontata nella sua cupa monotonia: già a metà del 2019, i 2153 personaggi più ricchi del mondo possedevano un patrimonio pari a quello di 4,6 miliardi di persone, ossia il 60% della popolazione mondiale. In compenso, il 50% più povero disponeva dell’1% della ricchezza mondiale; d’altra parte, il patrimonio delle 22 persone più ricche del pianeta superava la ricchezza di tutte le donne del continente africano. Per farcene un'idea colorita, Oxfam descriveva l'immagine come un tizio che si mettesse a sedere sulla propria ricchezza in banconote da 100 dollari: la maggior parte della popolazione mondiale si ritroverebbe col didietro per terra, gli esponenti della “classe media” dei Paesi ricchi siederebbero più comodamente su una sedia, mentre i detentori del patrimonio più ricco finirebbero in orbita nello spazio, appollaiati su una pila che supera i cento chilometri di altezza. Figuriamoci quindi cosa potranno raccontarci nell'assise del prossimo anno, se mai avranno il coraggio di riunirsi ancora una volta a Davos per fare la lista dei disastri che il mondo dovrà sopportare, ora che il sistema capitalistico sta dimostrando di non avere gli strumenti per affrontare e risolvere un'emergenza imprevista di queste dimensioni.

Viviamo in un mondo in cui il 46% delle persone sopravvive con 5,50 dollari al giorno, e dove nel 10% di retribuzioni più basse figurano redditi da 22 dollari al mese. “Un lavoratore collocato nel 10% con retribuzioni più basse avrebbe dovuto lavorare quasi tre secoli e mezzo per raggiungere la retribuzione annuale media del 10% dei lavoratori più retribuiti" (Il Fatto Quotidiano, 20.1.20). Per non parlare del lavoro non retribuito, il lavoro di cura, che praticamente in tutti i continenti è sostenuto più o meno all’80% dalle donne, che costituiscono l’impalcatura di tutto un sistema, permettono all’economia di funzionare, e per il loro lavoro non percepiscono alcun reddito. La stragrande maggioranza della popolazione mondiale non si è ancora ripresa dalla crisi scatenata dalla bolla finanziaria del 2008, e si ritroverà a subire le conseguenze del tracollo generale dovuto all'epidemia di coronavirus. Come ci si può illudere con la retorica della solidarietà e l'illusione dell'aiuto reciproco, stante la sopravvivenza del sistema capitalistico?

Nel nostro Paese, il 30% dei nuovi redditi da lavoro dipendente, quelli percepiti dai giovani occupati, non supera gli 800 euro al mese, e il 13% dei giovani sotto i 29 anni versa in condizioni di povertà lavorativa. Quel che è peggio è che il divario tra i redditi negli ultimi anni non ha accennato a diminuire, anzi è aumentato: i redditi più ricchi superano ormai di sei volte i redditi più poveri, almeno secondo quanto calcola Eurostat, secondo cui - fra l'altro - si tratta del rapporto peggiore tra i Paesi europei più avanzati, come Germania, Francia, Spagna. La pandemia sta facendo terra bruciata sull'occupazione stagionale nel turismo, nella ristorazione, nei trasporti, nel settore della cultura. Come si può pensare di spremere ancora altri margini per i profitti dei pescecani confindustriali, che cercheranno comunque di accaparrarsi il possibile, e perfino l'impossibile? Eppure, siamo certi che, con la stessa spietatezza con la quale hanno cercato in ogni modo di continuare a produrre in val Seriana mentre il virus falcidiava la popolazione, con la stessa spregiudicatezza con la quale hanno dichiarato essenziale alle Prefetture la produzione di ogni genere di merce, con la stessa determinazione con la quale oggi chiedono lo stanziamento di somme a fondo perduto, cercheranno di imporre in tutti i modi la conservazione di ogni privilegio.

In soli quattro mesi il virus ha contagiato 7 milioni di persone e ne ha uccise 380.000. A occhio e croce, secondo i cosiddetti esperti, il PIL mondiale subirà un crollo del 3%, pari al peggior calo mai registrato, subito durante la recessione del 1930, con una perdita globale di 9000 miliardi di dollari. (Corriere della Sera, "Gli effetti della globalizzazione: ricchezza per pochi e Covid-19 per tutti" 7.6.20). Non possiamo sapere cosa succederà nei prossimi mesi, come si evolverà la pandemia, se saranno possibili ulteriori blocchi di attività nel mondo. Sappiamo che, in ogni caso, la classe lavoratrice subirà i peggiori contraccolpi, e dovrà organizzarsi per difendersi.

Aemme