Potrà sembrare anche scontato, ma è bene ribadirlo: sedersi a lavorare al tavolo di cucina, invece che alla scrivania del proprio ufficio, non vuol dire necessariamente essersi liberati dalla schiavitù del lavoro...
La pandemia ha costretto l'intera società entro limiti ben precisi. Come in un gioco con le regole cambiate, ha imposto i suoi parametri, e dentro questi parametri hanno dovuto adeguarsi le dinamiche del lavoro. Dentro queste dinamiche molti di noi - lavoratori, perché no, privilegiati - hanno scoperto che le imprese possono produrre anche evitando di mettere a disposizione i mezzi di produzione e i costi di gestione...il sogno di ogni detentore di capitali: incassare profitti senza nemmeno possedere i mezzi di produzione. Invece, per il lavoratore, il paradosso di possedere il mezzo di produzione e ricavarne solo un modesto salario. Nel pieno dell'emergenza, infatti, i lavoratori più fortunati hanno potuto evitare di rischiare la salute sui mezzi di trasporto e in posti di lavoro frequentati, mettendo a disposizione le loro case, e in molti casi anche i loro dispositivi informatici, per lavorare in "smart working", secondo l'ennesima espressione anglofona che rende tutto più fico.
Certo, tutto dipende da come si guardano le cose. Questa modalità di lavoro, finora poco utilizzata, offre delle opportunità al lavoratore, a parte quella (si spera contingente) di salvaguardarsi dal contagio: risparmiare sui tempi e sui costi di trasporto, avere opportunità di impiego più ampie, essere meno sottoposti al controllo occhiuto del padrone. Ma non sempre: ci sono stati casi in cui l'azienda ha potuto controllare anche i tempi di battitura sui tasti e i movimenti del mouse. Senza contare il fatto che, in assenza di norme e contratti specifici, le imprese si sono prese la libertà di usufruire in toto delle giornate di lavoro, ampliando i tempi di connessione, i collegamenti on line e le chiamate telefoniche a piacimento. Il tutto, appunto, a costi zero: in moltissimi casi, aziende ed enti pubblici hanno messo a disposizione giusto i programmi, usufruendo dei computer, delle connessioni, delle linee telefoniche, dell'elettricità, del riscaldamento degli ambienti, messi a disposizione dal lavoratore...che non si è nemmeno lamentato, visto che frequentare ambienti di lavoro potenzialmente infetti sarebbe stato peggio. Anzi, affrontando - non sempre di buon grado - difficoltà di vario tipo, come ambienti non adatti e scomodi, mancanza di attrezzature che rendono il lavoro più semplice, difficoltà di rapporto e di confronto con i colleghi, bambini per casa da sorvegliare, connessioni senza orario, etc.
Diciamo che non è il paradiso del lavoratore. Anche perché non è facile, da lontano, sentirsi parte di una collettività di lavoratori, elaborare strategie comuni e difese collettive, diritti e rivendicazioni. Per contro, vista dal punto di vista delle imprese, è un'opportunità da non perdere. E infatti moltissime non hanno intenzione di tornare indietro, e sono intenzionate a percorrere convintamente la strada di una buona percentuale di personale al lavoro da casa. "Si è passati dai 570mila in lavoro agile prima della pandemia Covid (stime del Politecnico di Milano) agli 8 milioni con il lockdown. Il tutto nel giro di appena qualche settimana" (La Repubblica, 25.5.20). Gestire anche questo cambiamento è una sfida per il futuro.
Aemme