Il lavoro al tempo del covid

La pandemia ha sparigliato le carte ancora una volta nel mondo del lavoro; il problema è che chi distribuisce le carte non sono i lavoratori, e anche nell’emergenza sanitaria abbiamo visto come la classe dominante abbia difeso con forza e consapevolezza i propri interessi. Per la classe lavoratrice resta la medaglia di “eroi”


Bisogna dare atto al capitale di possedere la capacità di adattarsi alle situazioni, e una immensa flessibilità per cogliere le opportunità ogni volta che si presentano. Così hanno fatto soprattutto le imprese più grandi, trovando immediatamente soluzioni per produrre sempre e in qualsiasi condizione. Pur piangendo miseria, molte di loro si sono immediatamente riconvertite, passando con disinvoltura dalla produzione di abiti di lusso a quella di mascherine chirurgiche, o da quella di liquori pregiati a quella di disinfettanti per le mani. Qualora non fosse possibile la riconversione (è difficile che i bulloni o i freni per auto possano essere usati per le attrezzature sanitarie) hanno comunque tentato – riuscendoci quasi sempre – di far passare le loro produzioni come “essenziali”, imponendo a tutti i costi il lavoro nelle loro fabbriche, inserendole a forza fra quelle consentite come “essenziali” in regime di emergenza. Quando non era possibile, lo hanno fatto in qualche modo lo stesso, eludendo i controlli e infischiandosene delle regole di sicurezza, mascherine o no, quando mancavano le mascherine – ammesso che siano davvero effettivamente sufficienti a salvaguardare la salute dei lavoratori, quando le distanze non si possono rispettare.

Con lo stesso criterio, oggi che il lavoro è più o meno ripreso quasi dappertutto, chiedono – e largamente ottengono – garanzie e condizioni agevolate. Nel decreto di maggio le imprese fanno la parte del leone, aggiudicandosi in soldi sonanti il taglio dell’IRAP (sì, proprio quella, la tassa che serve a finanziare la sanità), sgravi sulle bollette, sconti sugli affitti, agevolazioni per la messa in sicurezza delle aziende. Non solo: a giugno incassano anche l’esenzione dalla responsabilità di contagio del lavoratore. E se si è infettato in fabbrica? Non potrà dimostrarlo.

Per i lavoratori, costretti a soffocare sotto le mascherine otto ore al giorno, non sono state concesse né più pause, né maggiori indennità, né qualsivoglia forma di indennizzo dal rischio e dal disagio. Anzi, per loro rimangono le briciole, costituite dalla cassa integrazione (che peraltro notoriamente si pagano, versando regolarmente i contributi), la cassa in deroga, della quale peraltro molti di loro non hanno ancora visto un centesimo, e 15 giorni di congedo straordinario per chi ha dovuto sobbarcarsi anche gli oneri dei figli a casa senza i servizi scolastici (le lavoratrici, per lo più). Perfino le indennità erogate dall’INPS in favore dei lavoratori, “anche autonomi, le cui attività risentano dell’emergenza economica e sociale conseguente alla pandemia dovuta al Covid-19, di 500 euro, 600 euro e 1.000 euro, a seconda dei casi” (Sito INPS) possono essere più alti della cassa, e a quanto pare sono toccati anche a professionisti – notai, avvocati – che potevano comodamente farne a meno. In compenso, a sommo disprezzo dei tanto decantati “eroi”, non ci sono nemmeno i fondi per erogare il premio una tantum di 1000 euro agli operatori sanitari.