Il risultato delle elezioni regionali di gennaio ha certamente un suo significato politico. Ma questo non significa che i lavoratori e i ceti popolari in genere vedranno cambiare qualche cosa di importante nelle loro condizioni presenti o che si apra qualche prospettiva migliore nell’immediato futuro. La stagnazione economica rimane il dato principale. L’altro dato, altrettanto importante, è la completa mancanza di iniziativa da parte di chi dovrebbe rappresentare gli interessi dei lavoratori. In altre parole, il settore della società che produce tutta la ricchezza paga completamente e pressoché da solo gli effetti della crisi, non ha una propria voce in grado di farsi sentire.
Salvini voleva “liberare” l’Emilia-Romagna ed è stato fermato dal 51,4% dell’elettorato. È lecito tirare un sospiro di sollievo. La parte più reazionaria e pericolosa dello schieramento politico non è più una carica inarrestabile di cavalleria. Alla vittoria del centrosinistra in Emilia-Romagna hanno senza dubbio contribuito le “sardine” con le loro manifestazioni di piazza. In generale, l’aver presentato le elezioni emiliane come un referendum sul governo e una scelta tra questo e Salvini, ha mobilitato gli elettori che non avevano votato alle scorse regionali. Il tasso di partecipazione è stato del 67,7%, di poco superiore alle europee del 2019 e quasi il doppio di quello delle regionali del 2014.
Ma, certo, l’influenza delle correnti reazionarie, nazionaliste e razziste non è venuta meno. Anche non considerando la vittoria delle destre in Calabria, nella stessa Emilia il partito semi-fascista della Meloni è passato dai poco più di centomila voti delle europee ai 185.789 di queste regionali.
In ogni caso, le elezioni sono al massimo un termometro che registra gli umori che attraversano una popolazione e, per le classi dirigenti, un sondaggio sulle migliori formule che possono essere utilizzate per mantenere intatto il meccanismo sociale che garantisce l’accumulazione capitalistica. Non si può chiedere alle urne quello che le urne non possono dare.
In questo senso, più che ai risultati elettorali e ai flussi di voto bisognerebbe guardare a quello che accade in Francia. In un paese europeo confinante, un paese moderno, non un paese del terzo mondo, milioni di lavoratori hanno già scritto una delle migliori pagine della storia del movimento operaio dal 1968. Uno sciopero che, con alti e bassi, continua dagli inizi di dicembre e una mobilitazione che, in ogni caso, rimane in piedi. Si sa che i ferrovieri e i tranvieri lottano, assieme a moli altri settori della classe lavoratrice, per il ritiro della “riforma” del sistema pensionistico di Macron, ma, al di là della motivazione, la cosa che sorprende e amareggia è che qui non si discuta quasi per niente di questo grandioso movimento che si può toccare con mano facendo qualche decina di chilometri oltre il confine italiano. Come se tutta questa energia non potesse essere un valido punto d’appoggio per tutti i lavoratori europei e non costituisse uno sprone e un incoraggiamento per un grande movimento rivendicativo anche in Italia. La classe lavoratrice si confronta ovunque con problemi analoghi, subisce ovunque gli attacchi del capitalismo e dei governi che lo servono. I confini veri sono sociali e non nazionali.
Ragionare in questi termini corrisponde alla realtà oggettiva delle cose, il problema è adeguare la coscienza politica della classe lavoratrice alla realtà. Senza dubbio, richiamare almeno i lavoratori più combattivi e coscienti allo studio e alla riflessione sulla dinamica degli scioperi francesi e sui metodi adottati è un passo necessario. Non si tratta di mitizzare niente e nessuno, si tratta di imparare dai fatti, compresi gli errori e le insufficienze. Sarà comunque mille volte più importante di calcolare quanti voti ha perso Salvini o quanti ne ha acquistati il PD.
I posti di lavoro di operai, tecnici e impiegati sono minacciati in centinaia di crisi aziendali. È una situazione insopportabile e talmente estesa che costituisce ormai un dato caratteristico della condizione operaia. Non si tratta di pochi casi isolati. Non si può credere che ci si possa difendere azienda per azienda, cercando una soluzione al Ministero per lo sviluppo economico sui cui tavoli giacciono già 160 dossier. È l’ora di mettere sul piatto una iniziativa generale, una mobilitazione di tutto il mondo del lavoro, per rivendicare il blocco generalizzato dei licenziamenti, la garanzia integrale del salario e la spartizione del lavoro tra occupati e disoccupati.
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