La crisi di Taranto non è un episodio isolato, non ha a che vedere esclusivamente con dinamiche locali, e nemmeno soltanto nazionali. Per capire meglio, è utile guardare più lontano
Taranto non è l’unico sito produttivo in Italia di ArcelorMittal, anche se è sicuramente il più importante: questo colosso, il più grande produttore di acciaio a livello mondiale, ha stabilimenti anche a Genova e a Novi Ligure, e impianti meno estesi anche a Milano, Racconigi, Paderno Dugnano, Legnano e Marghera. E’ passato poco più di un anno, da quando la multinazionale ha firmato un contratto per l’affitto degli impianti di Taranto, che avrebbe dovuto trasformarsi in acquisizione definitiva nel 2021. Ma già a novembre di quest’anno ha aperto una procedura per la cessione del ramo d’azienda, in pratica restituendo la fabbrica ai commissari straordinari che l’avevano gestita dopo l’estromissione dei Riva.
La propaganda politica delle opposizioni parlamentari e buona parte della stampa hanno battuto la grancassa sulla famosa eliminazione dello scudo penale, che avrebbe nuociuto irrimediabilmente alla proprietà, scoraggiandola dall’effettuare investimenti in loco; c’è chi si è spinto perfino a ipotizzare che simili posizioni da parte dello stato italiano scoraggiano gli investimenti di capitali, nazionali e stranieri. Ci mancherebbe altro, che i capitalisti fossero chiamati a rispondere penalmente dei disastri che producono... In realtà, l’immunità penale consisteva nel non poter rinviare a giudizio i responsabili delle violazioni ambientali almeno fino al 2023, anno in cui avrebbero dovuto essere realizzati gli ammodernamenti per garantire la sicurezza, sia sul lavoro, sia sul piano ambientale. Ma, protezione legale o no “anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto”, così recita la relazione dei legali di ArcelorMittal al Tribunale di Milano, per la valutazione della possibilità di recesso (il Fatto Quotidiano, 6.11.19), con ciò tagliando la testa a ogni dubbio in proposito.
Ai molti dubbi che solleva la crisi di Taranto offre una prospettiva un po’ più ampia il punto di vista del quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 Ore. Il mercato siderurgico europeo, stretto tra i dazi di Trump e la concorrenza della produzione cinese, che copre ormai metà del mercato mondiale, conosce un periodo di forti difficoltà: “Tutti i principali produttori europei sono in crisi. Nelle ultime trimestrali i gruppi quotati hanno segnalato perdite o profitti in calo e i titoli delle società da inizio anno perdono dal 10 al 20%. Molti hanno deciso di tagliare la produzione. A questa dinamica si salda un dato strutturale relativo al mercato mondiale dell’acciaio, vale a dire la sovracapacità. C’è troppa capacità produttiva rispetto alla domanda, troppi impianti che producono acciaio” (Il Sole 24 Ore, 8.11.19) Cioè, di acciaio ce n’è troppo, non relativamente a quanto ne servirebbe, ma relativamente a quanti sono in grado di comprarlo; una vecchia disgrazia del sistema capitalistico, la crisi di sovrapproduzione, che ogni volta si ripropone, magari in forme diverse ma con la stessa sostanza. Fatto sta che ArcelorMitttal contava di produrre (e smerciare) 6 milioni di tonnellate di acciaio quest’anno, mentre ne ha prodotte (e vendute) 4 milioni e mezzo, appena mezzo milione di tonnellate in più della gestione commissariale. Con questi livelli produttivi, l’amministratrice delegata Lucia Morselli sostiene: “In questo momento non ci paghiamo gli stipendi” e accusa perdite di 2 milioni di euro al giorno (Il Fatto Quotidiano, 6.11.19).
La soluzione? Intanto lo spegnimento dell’altoforno 2, che avrebbe dovuto essere oggetto di lavori di messa in sicurezza, a oggi non finiti: è quello il cui malfunzionamento ha provocato nel 2015 la morte di un operaio, investito da un getto di ghisa. Poi, lo spegnimento degli altoforni 1 e 4, anch’essi passibili di rientrare nelle prescrizioni dei lavori di adeguamento previsti dal Tribunale. Di conseguenza, almeno 5.000 esuberi e la richiesta di un numero esorbitante di operai in cassa integrazione. In più, la beffa di chi esorta alla “diversificazione” in un territorio devastato, dove la fabbrica ha occupato una superficie più vasta di quella della città stessa.
Sulla pelle degli operai di Taranto e di tutta la popolazione, che patisce da decenni inquinamento e malattie tumorali, le proprietà succedutesi hanno macinato profitti a piacimento, finché è stato possibile. Oggi che il sentiero è diventato sempre più stretto – per la crisi dell’acciaio, e per una situazione ambientale diventata negli anni sempre più insostenibile – non resta che alzare bandiera bianca e abbandonare città e lavoratori al loro destino, a sperare in nuovi padroni salvifici o nell’intervento di uno Stato debole e incapace. Un po’ come è successo e succede alle acciaierie di Piombino o a quelle di realtà di cui conosciamo poco, come gli stabilimenti che ArcelorMittal ha chiuso in Polonia, Sudafrica, Stati Uniti. O come lo stabilimento ridimensionato di Hunedoara, in Romania, dove lavoravano in 20.000 e sono ridotti a 700. Tutti percorsi con una sorte comune: drastico taglio dei dipendenti, dismissione di larga parte degli impianti al fine di “rilanciare la produzione”(!), morte lenta ma progressiva del sito. I colossi mondiali a volte comprano semplicemente per distruggere, per eliminare una concorrenza scomoda; e mentre i pescecani si mangiano tra loro, lavoratori e popolazione ne pagano le conseguenze.
Aemme