Quello di pochi giorni fa non è il primo caso, è il terzo in un anno: sono state tre le vittime degli incendi nella baraccopoli di San Ferdinando, un ghetto immondo dove trovano rifugio migliaia di immigrati, manodopera a bassissimo prezzo per la raccolta degli agrumi nella piana di Gioia Tauro
Sono immagini tremende anche solo da vedere in televisione, ma certo essere presenti sul posto, aggirarsi tra le baracche bruciate, tra le poverissime cose dei migranti, dev’essere quasi insopportabile. Non siamo in un continente arretrato, non siamo in un Paese impossibilitato a mettere a disposizione condizioni minime di esistenza. Siamo in Italia, Comunità Europea, le persone che vivono nella baraccopoli distrutta sono quelle che assicurano ogni inverno la regolare raccolta degli agrumi, e questa baraccopoli stessa costituisce “la pacchia” di cui godrebbero gli immigrati extracomunitari, e di cui in continuazione si riempie la bocca il Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Nel giro di un anno, a causa degli incendi, che sono stati diversi ma soltanto per puro caso altre volte non hanno provocato vittime, è morta a gennaio 2018 una ragazza nigeriana di 26 anni, Becky Moses, a dicembre 2018 un ragazzino di 18 anni del Gambia, Surawa Jaith, e a febbraio di quest’anno Moussa Ba, di 29 anni, del Senegal. Ricordarli con i loro nomi significa anche rispettare le loro esistenze, perché non sono solo genericamente “immigrati”.
Quello di San Ferdinando non è l’unico ghetto. Altri se ne formano in concomitanza con altre campagne di raccolta, in estate con quella dei pomodori, in autunno con quella dell’uva o delle mele. Sempre e dovunque le condizioni di vita nelle baraccopoli sono comuni: alloggi di fortuna costruiti con lamiere, cartoni e teli di nylon, condizioni igieniche palesemente precarie, solitamente niente acqua corrente né elettricità, niente riscaldamento in inverno. Sempre e dovunque si tratta di realtà sotto gli occhi di tutti, ovviamente anche delle autorità che dovrebbero sanzionare le irregolarità e le violazioni della legge. Un villaggio di baracche come quello di San Ferdinando è così ufficialmente riconosciuto che i Vigili del Fuoco vi avevano allestito una postazione fissa, e sono stati loro a evitare che il bilancio del rogo fosse più tragico L’uso di fiamme libere, fornelli e stufette, rende quotidiano il rischio di incendi, e dati i casi precedenti qualcuno avrà pensato di metterci una toppa, per quanto palesemente insufficiente. Nessuno perciò può far finta di non sapere, dai Sindaci della zona, al Prefetto, al Questore, alle autorità di Pubblica Sicurezza, al Ministro dell’Interno. Così come sono perfettamente a conoscenza di tutti – autorità e non - le condizioni di sfruttamento che subiscono gli abitanti del ghetto quando si trasferiscono nei campi per lavorare. Ciononostante, l’unico intervento promesso dall’ineffabile Ministro dell’Interno – che si parli di alloggio come di condizioni di lavoro - è stato lo sgombero della baraccopoli: con quali alternative per i suoi attuali abitanti, non è dato sapere.
Abbiamo visto però che ben altra attenzione ha meritato l’esperienza praticata dal sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che ha sperimentato i rigori della legge per non aver lasciato dormire tra i cartoni né lavorare dodici ore per pochi euro gli immigrati capitati nel suo Comune. Del suo modello di accoglienza, che prevede l’utilizzo delle abitazioni lasciate vuote dagli abitanti di Riace, emigrati a loro volta all’estero, si è parlato più all’estero che in Italia. Ma si sa, nessuno è profeta in Patria, nemmeno Lucano stesso, che l’emigrato lo ha fatto veramente, e per quanto sia stato messo nella lista delle 50 persone più influenti del mondo dalla rivista Fortune nel 2016, non è sfuggito all’occhiuta giustizia italiana. Forse faceva specie che gli immigrati a Riace, oltre ad alloggiare in case normali, far parte di un tessuto sociale, avere una famiglia e bambini a scuola, lavorassero in cooperativa con gli abitanti del posto, condividendo attività di gestione dei servizi della comunità.
Il progetto di Lucano, iniziato quando ancora non era sindaco, e realizzato ancora prima dei finanziamenti Sprar (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati), non coinvolgeva soltanto gli immigrati ma anche i residenti, e tutti hanno potuto beneficiarne. Una soluzione troppo semplice per non attirare l’attenzione di chi sui migranti preferisce lucrare, vuoi economicamente, vuoi politicamente. Fatto sta che Lucano è stato arrestato il 2 ottobre 2018 nell’ambito di un’inchiesta avviata dalla procura di Locri diciotto mesi prima per truffa aggravata, concussione e abuso d’ufficio, con tanto di arresti domiciliari, e successivamente con l’obbligo di dimora fuori del suo Comune. Nonostante lo strenuo impegno degli inquirenti, delle accuse più gravi non è rimasto niente, e alla fine delle indagini le uniche accuse rimaste in piedi sono state favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – per aver cercato di regolarizzare i documenti di una donna a cui era stato negato l’asilo - e affidamento fraudolento diretto (“turbata libertà di incanti”) del servizio di raccolta dei rifiuti a due cooperative costituite da immigrati e residenti della zona, senza che le coop fossero iscritte nell’albo regionale. Certo, usare i soldi erogati dal Governo per borse lavoro, attività artigianali o commerciali gestite direttamente dai richiedenti asilo, spesso in collaborazione con gli abitanti del posto, avrà scontentato i più. Di sicuro ci saranno rimaste male le “organizzazioni benefiche”, abituate a lucrare affari milionari sulla pelle degli immigrati gestendo centri di accoglienza lager.
Sarà per questo che sui reati commessi nello sfruttamento degli immigrati si può chiudere benevolmente un occhio.
Aemme