Corrispondenza da Pavia - Il mercato della carne proletaria nel polo logistico dell’Oltrepò Pavese

“Fame” di lavoro, tutto pur di lavorare. Con simili espressioni, La Provincia Pavese a metà gennaio ha accompagnato la cronaca della giornata di reclutamento per la nuova logistica nell’area di Broni (Pavia). Gli incaricati dell’agenzia che ha organizzato la selezione dei candidati all’assunzione hanno raccontato di aver incontrato duecento persone per sessanta posti. Molti i giovani, ma presenti anche persone più mature che sperano di rientrare nel mondo del lavoro. In maggioranza erano italiani ma con significative presenze di candidati di origine straniera. L’articolo ci offre un asciutto e crudo spaccato della condizione proletaria in un lembo d’Italia un tempo troppo frettolosamente e acriticamente elevato a paradigma di stabilità sociale, di placide e un po’ sonnolente comunità imperniate intorno alla prosperità agricola dell’Oltrepò Pavese.

Intorno al miraggio di un posto di lavoro nella logistica, magari come facchino – quali miraggi è costretta ad inseguire la nostra classe! – è tutto un mondo proletario che si muove, si accalca. C’è il ventenne «continuamente alla ricerca» di occupazione per cui «qualunque impiego andrà bene». C’è il cinquantenne, ex titolare di una piccola officina (quante illusioni, quante speranze coltivate “in proprio” ha triturato il capitalismo in questi ultimi anni…), già reduce da una richiesta di aiuto allo sportello lavoro del Comune. C’è il muratore disoccupato, finito nel calvario dei «lavoretti precari», che dichiara: «Mi basta lavorare». C’è la lavoratrice che racconta comeabbia fatto «di tutto, dalla cameriera alla cuoca» e che assicura: «Sono disposta anche a muovermi».

Che vengano, i teorici della fine delle classi, tra questi aspiranti facchini in marcia dai paesi delle colline rinomate per i vini pregiati, dai centri abitati lungo la statale che porta il nome della via Emilia. Che vengano i profeti dello sfavillante destino di ceto medio che avrebbe atteso tutti nel paradiso del capitalismo finalmente senza più nemici. Anche il grugnito oggi di moda – “prima gli italiani” – è solo un incongruo rumore di fondo di fronte a questa umanità lavoratrice che conosce davvero i bisogni e le dure esigenze di chi deve vivere di solo salario. E se mai il richiamo al primato nazionale dovesse fare capolino sarebbe solo per dividere la classe sfruttata a tutto beneficio delle aziende che su questo sfruttamento costruiscono le proprie fortune. Intanto, mentre assessori e politici locali innalzano, con il loro consueto e “sano” pragmatismo, inni di gioia per la bella giornata, il mercato e la selezione della carne umana si sono protratti, almeno a nostra conoscenza, senza una presenza sindacale che potesse offrire un sostegno a questa concentrazione di forza-lavoro, che potesse offrire la testimonianza chequesti candidati lavoratori non sono abbandonati a se stessi, che essere assunti non significa consegnarsi inermi, senza tutele e possibilità di difesa, all’azienda magnanima. Ma forse i dirigenti confederali erano troppo impegnati nei dibattiti congressuali e nelle tavole rotonde su come risalire la china e ritrovare un barlumedi riconoscimento nel “nuovo” mondo del lavoro (escludendo per pudore altre e vergognose attività, come è il caso del sindacalista coinvolto nelle indagini sul caporalato a Latina).

Questo piccolo e significativo pellegrinaggio di proletari aspiranti dipendenti della logistica attesta, inoltre, come e quanto vigano le implicabili leggi che il capitalismo riserva anche alla merce forza-lavoro. Con duecento candidati per sessanta posti, con uomini e donne che sono disposti ad accettare praticamente qualsiasi condizione pur di ottenere un impiego, non sorprende che il capitale possa spadroneggiare. Maquesta condizione non è eterna e sempre operante con la medesima efficacia. Ecco, quindi, che si stanno affilando gli attrezzi, i dispostivi per misurarsi conle manifestazioni di reazione degli sfruttati in un settore, come la logistica, che negli anni recenti ha mostrato vitali segnali di conflittualità. Sempre La Provincia Pavese informa che sono arrivate dieci condanne a 750 euro per i lavoratori in sciopero di un’azienda di San Cipriano Po, parte del polo logistico dell’Oltrepò Pavese. Il quotidiano locale ha citato alcuni dei comportamenti messi in atto dai condannati, che protestavano per il licenziamento di un delegato sindacale SI Cobas: urla («via, via!») rivolte «in maniera minacciosa» ai crumiri e, «almeno in un caso», calci contro l’auto di uno di questi. Il messaggio è forte e chiaro: l’unico esercizio di forza legittimo, l’unica violenza lecita rimane e deve rimanere quella del capitale.

Per chi fonda la propria militanza contro il capitalismo sulla teoria marxista tutte queste sono conferme. Conferme di come la ferocia e la contraddittorietà di questa formazione sociale non possano essere superate senza superare il capitalismo stesso. Lo spettacolo dei proletari che si ammassano ai banchi delle agenzie di lavoro per farsi scremare, selezionare, che portano in questi mercati della carne proletaria il peso di tutta la loro precarietà, delle loro angosciate aspirazioni, rinnova in noi lo sdegno per il perdurare di questo sistema inumano. Ma non ci abbatte né scoraggia. Anzi, da un lato conferma come nelle stesse, profonde, contraddizioni del capitalismo risieda la possente ragione della nostra esistenza come soggettività rivoluzionaria. Dall’altro ci sprona con ancora più energia a sostenere, difendere, espandere la coscienza dei compiti della lotta contro un modo di produzione che inevitabilmente riduce l’essere umano a merce.

Corrispondenza Pavia