Qualcuno, nell’approssimarsi del 4 novembre, ha proposto di fare di nuovo di questo giorno un giorno festivo. In ogni caso, il giorno sarà ricordato con cerimonie e festeggiamenti dalle autorità nazionali, civili e militari, e da quelle locali. Che cosa c’è da festeggiare? Il giorno della vittoria. Così almeno dice da un secolo la retorica nazionalista. Ma se mai ci fu una vittoria, questa non fu certamente dei milioni di soldati, in grandissima maggioranza operai e contadini, che si affrontarono nei campi di battaglia. Ne morirono moltissimi e le cifre precise ancora non si conoscono. Le stime più prudenti dicono circa 10 milioni in tutta Europa.Più di un milione e 200mila furono quelli italiani. Un milione furono gli invalidi. Senza soffermarsi sulla ricorrente narrazione nazionalista, il punto di vista dei militanti internazionalisti dell’epoca, colpiti dalle ingiurie, dalla diffamazione e dalla repressione dei propri governi, resta l’unico punto di riferimento valido per comprendere che cosa rappresentò veramente la Prima guerra mondiale. Lenin scriveva, poco dopo lo scoppio delle ostilità: “La guerra europea, preparata durante decenni dai governi e dai partiti borghesi di tutti i paesi è scoppiata. L’aumento degli armamenti, l’estremo inasprimento della lotta per i mercati nella nuova fase imperialistica di sviluppo del capitalismo nei paesi più avanzati, gli interessi dinastici delle monarchie più arretrate dell’Europa orientale dovevano inevitabilmente condurre, e hanno condotto, a questa guerra. Conquistare territori e asservire nazioni straniere, mandare in rovina le nazioni concorrenti e depredarne le ricchezze, deviare l’attenzione delle masse lavoratrici dalla crisi politica interna in Russia, in Germania, in Inghilterra e in altri paesi, scindere le masse lavoratrici, abbindolarle mediante l’inganno nazionalistico e distruggerne l’avanguardia allo scopo di indebolire il movimento rivoluzionario del proletariato, ecco l’unico contenuto, il significato e la portata della guerra attuale”.
L’Italia in guerra
L’Italia entrò in guerra nel 24 maggio 1915, un anno dopo le altre potenze europee. Le classi dirigenti si erano lungamente divise sull’opportunità di schierarsi dall’una o dall’altra parte. Per altro, i trattati internazionali vincolavano il Regno d’Italia all’Austria e alla Germania. È interessante, a questo proposito, che le correnti politiche interventiste (cioè favorevoli all’intervento in guerra) trovassero argomenti “ideali” almeno inizialmente sia per combattere a fianco degli austriaci che a fianco dei loro nemici inglesi e francesi.
Il nazionalismo italiano ebbe caratteri particolari, caratteri che puntualmente troviamo nel “pensiero” politico dei nostri giorni. Per la borghesia italiana, fino a quel momento tagliata fuori quasi del tutto dalla spartizione del mondo, si trattava di ritagliarsi una fetta della torta dei mercati e delle colonie. Roberto Michels, un intellettuale che allora andava per la maggiore, scrisse un libro nel quale sosteneva la necessità di appropriarsi di quella parte del mondo “che era rimasta nelle mani dei popoli deboli”. Già in occasione della guerra con la Turchia, nel 1912, che fruttò all’Italia il possesso della Libia, il “socialista” Arturo Labriola aveva scritto che la lotta non era solo contro l’impero ottomano in disfacimento “ma anche contro gli intrighi, le minacce, il denaro e gli eserciti dell’Europa plutocratica, la quale non può tollerare che le piccole nazioni osino fare anche un solo atto o dire una parola che comprometta la sua ferrea egemonia”. Un altro nazionalista, il Corradini, sosteneva che quello italiano era un “imperialismo proletario”. Come accadrà altre volte nella storia, i professori, gli intellettuali, furono gli utili idioti delle classi dominanti.
Nel frattempo, con le commesse militari in continuo aumento, i grandi gruppi industriali si riempivano i portafogli di profitti. Il capitale delle varie imprese, scrive lo storico Valerio Castronovo, si moltiplicò. Quello della Breda di otto volte, di 12 quello della Fiat, di quasi diciassette quello dell’Ansaldo. I profitti “salirono ad altezze mai toccate in precedenza: rispetto all’anteguerra gli utili dichiarati ufficialmente risultavano nel 1917 superiori a più del 30 per cento nell’industria automobilistica e toccavano quote varianti dal 6 al 16 per cento nelle imprese metalmeccaniche e siderurgiche. Non c’era aumento di capitale che non vedesse l’afflusso di centinaia di sottoscrittori, mentre i titoli in borsa crescevano continuamente di valore con sbalzi impressionanti”.
Il movimento socialista
I socialisti italiani subirono lo stesso sbandamento del resto del movimento socialista. Negli anni precedenti, l’Internazionale socialista, o Seconda Internazionale, aveva votato documenti, mozioni e risoluzioni assicurando la propria opposizione a ogni futura guerra europea e sottolineando l’importanza della solidarietà internazionale del proletariato contro le divisioni nazionaliste. Ma alla prova dei fatti, quasi tutti i partiti socialisti si schierarono con i propri governi, accampando le motivazioni più inverosimili. La realtà era che da partiti espressione della classe operaia si erano trasformati in apparati più o meno ben sistemati all’interno della società capitalistica, nella quale avevano finito per ottenere un certo prestigio e si erano ritagliati un ruolo di agenti della borghesia nel proletariato. Tra i pochi nuclei rimasti su posizioni internazionaliste, a fianco di Lenin, di Trotsky, di Rosa Luxemburg, ci furono vari esponenti del partito socialista italiano. Il partito, nel suo complesso, non arrivò al livello di tradimento del partito tedesco o di quello francese, ma più che di internazionalismo i suoi dirigenti facevano professione di “neutralismo”. Una posizione accomodante, ben distante da quella di Lenin che parlava apertamente di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, invitando i proletari che morivano come mosche nelle trincee a rivolgere i loro fucili contro i propri governi. Tra i pochi internazionalisti conseguenti ci fu il giovane Amadeo Bordiga, esponente di primo piano della federazione giovanile socialista e che divenne in seguito il primo segretario del partito comunista.
Tra i traditori del socialismo ci fu Benito Mussolini, che animò una piccola scissione e fondò, con i soldi del governo francese, un giornale, il Popolo d’Italia, che ancora per qualche tempo si definì socialista, e più tardi divenne l’organo ufficiale del partito fascista.
Il 1917
La crisi sociale, politica e militare dopo anni di una guerra logorante che fa marcire milioni di uomini in trincea e chiede i più duri sacrifici alle popolazioni rimaste nelle retrovie, si acuisce nell’ultimo anno di guerra. Succede anche in Italia, dove scoppiano rivolte e scioperi, nonostante la militarizzazione delle fabbriche. Poco prima del disastro di Caporetto, a Torino, la popolazione occupa le piazze, gli operai si armano, ci sono centinaia di morti. È la “rivolta del pane”, così passerà alla storia. La rotta di Caporetto, il 24 ottobre, segna lo sfacelo dell’esercito, con centinaia di migliaia di soldati, che, semplicemente, buttano via il moschetto e tornano a casa. Una diserzione di massa, per altro anticipata da buona parte degli ufficiali di leva, che, per la sua vastità, lo stato maggiore è impossibilitato a fronteggiare, per quanto non vengano lesinati i plotoni d’esecuzione.
Nel frattempo, il vento della rivoluzione soffia in Russia, e l’esempio dei bolscevichi diviene contagioso. In ogni trincea, come in ogni fabbrica, in ogni miniera, in ogni campo si dice: “Bisogna fare come in Russia”.
La “vittoria”
Il 4 novembre segna la fine della guerra, ma certo non delle sue cause, che infatti agiranno ancora nei rapporti tra le potenze fino a condurrealla Seconda guerra mondiale. Per l’imperialismo italiano si riproponeva il problema di rapporti di forza con gli alleati vincitori. Mentre la crisi economica e la disoccupazione di massa dovute alla smobilitazione dell’industria bellica spingono il movimento operaio su posizioni sempre più rivoluzionarie, la borghesia e i suoi rappresentanti politici soffiano sul fuoco di un nuovo nazionalismo. Si parla di “Vittoria mutilata” e si cerca una base di massa a proprio sostegno tra i reduci e tra gli studenti. Da questo processo nascono, nel 1919, i Fasci di combattimento di Mussolini.Si riveleranno ben presto un’arma decisiva per combattere il movimento operaio, affiancando le forze di polizia e spingendosi, nell’uso della violenza, fino a dove queste non potevano spingersi. Prima di essere un sistema di governo, il fascismo fu infatti una sorta di corpo franco del quale i proprietari terrieri o gli industriali potevano servirsi per punire i capi sindacali o gli elementi più in vista dei partiti operai, tutti accomunati sotto l’etichetta di “sovversivi”.
Come mostrava una vecchia vignetta del disegnatore socialista Scalarini, il fascismo fu, in tutto e per tutto, il figlio della guerra e di chi in Italia l’aveva ardentemente voluta. Un altro motivo per dire che il 4 novembre non c’è proprio nessuna vittoria da festeggiare.
RC