A dieci anni dallo scoppio della crisi americana dei subprimes, non si può dire che l’economia navighi ora con il vento in poppa. In Italia il governo Salvini-Di Maio deve fare i conti con le cifre impietose del calo della produzione industriale. Sul Sole 24 Ore del 13 settembre si poteva leggere, proprio a commento della flessione produttiva attestata dall’Istat: “Per 24 mesi, ininterrottamente, l’output manifatturiero si è mosso sempre nella stessa direzione, realizzando tassi tendenziali positivi, il periodo di sviluppo consecutivo più lungo degli ultimi dieci anni. Percorso che ora si interrompe, con il dato di luglio rilevato dall’Istat che arriva in parte inatteso per intensità, ma che comunque si allinea in buona compagnia (fiducia, export, indice Pmi) ai tanti segnali di frenata già evidenti da qualche tempo…Così come fino a pochi mesi fa era corale il percorso di crescita, così ora è altrettanto ampia la portata del rallentamento”. Il “governo del cambiamento” è avvertito.
E infatti, mentre si discute la legge finanziaria, i richiami della Confindustria e delle altre istituzioni che rappresentano il capitale, stanno già producendo i loro effetti. Tutti gli obiettivi “rivoluzionari” annunciati in campagna elettorale, dall’abrogazione della legge Fornero al Reddito di cittadinanza, per i quali si era assicurata la realizzazione immediata, si stemperano ora in riforme da completare “nell’arco della legislatura”. Cioè in cinque anni se il governo regge.
Se dovessimo riassumere in poche righe la vicenda politica che dalle elezioni del 4 marzo arriva a questo autunno potremmo dire che il movimento di Di Maio ha raccolto i consensi indispensabili alla formazione di un qualsiasi governo, che il PD ha rifiutato l’offerta di tornarvici, sia pure in una posizione subordinata, e che la Lega, svincolatasi dall’abbraccio di Berlusconi è salita disinvoltamente sul carro preparato dai 5 Stelle e poi, grazie alle sparate nazionaliste e xenofobe di Salvini, ha incamerato un appoggio popolare crescente, tanto da raddoppiare, secondo i sondaggi, i consensi ricevuti con il voto. Ora il problema è mantenere questo consenso.
Il partito di Salvini è indubbiamente molto più legato alla borghesia industriale, soprattutto quella dei piccoli e medi imprenditori del Nord, di quanto non lo sia il Movimento 5 Stelle. Questa gente ha già digerito male l’innocuo “Decreto Dignità”, con il quale Di Maio ha finto di combattere il lavoro precario e non è molto ben disposta a ingoiare altri rospi del genere, almeno non senza generose contropartite sul piano fiscale e attraverso le varie forme di incentivi economici ai quali già il centrosinistra li aveva abituati. D’altra parte, per quanto Salvini non susciti molta simpatia nei “salotti buoni” del capitalismo italiano, è normale che questi vedano il suo partito come il male minore tra i due che compongono il governo e che cerchino di forzargli la mano per ottenerne sia l’appoggio della piccola e media borghesia, sia la neutralizzazione della classe operaia e degli strati più poveri della società. Se Salvini e i suoi riusciranno nel difficile compito di assicurare un bel po’ di denaro pubblico agli imprenditori grandi e piccoli, mantenere entro limiti “tollerabili” il debito e inventarsi nuovi diversivi per tenere buona almeno una parte della classe lavoratrice, si dimostreranno gli uomini politici attualmente più affidabili per il capitalismo italiano. E Di Maio? Sia che annacqui ancora la parte “sociale” del suo programma, appiattendosi sempre di più sulle posizioni di Salvini, sia che rompa con lui, il suo capitale di consenso elettorale è molto a rischio.
In ogni caso, se la crisi si aggraverà, tutti gli equilibri saranno ulteriormente messi in discussione. Il pericolo di precipitare nella povertà non riguarda solo i lavoratori salariati ma anche una parte della piccola borghesia, degli artigiani, dei commercianti, dei piccoli imprenditori. Questo potrebbe condurre a movimenti e a forme di lotta politica più violenti e reazionari ai quali la xenofobia e il nazionalismo appena mascherati del governo giallo-verde avranno aperto la strada.
Si sente bisogno di cambiamenti radicali di fronte a una realtà che ci appare incomprensibile e minacciosa. Lo abbiamo letto e sentito molte volte negli ultimi tempi. Ma la strada dei cambiamenti radicali non può essere il ritorno al nazionalismo o peggio ancora a un regime di oppressione razziale. È la borghesia industriale e finanziaria che deve essere detronizzata, per liberare le capacità produttive della società. Solo una trasformazione in senso socialista renderà possibile gettarsi alle spalle le crisi economiche con il loro portato di miseria e rabbia sociale. Bisogna che il programma rivoluzionario del comunismo torni ad essere la base del pensiero, dell’organizzazione, dell’azione della classe lavoratrice.