Per descrivere l’interminabile periodo che è seguito alle elezioni del 4 marzo sono già stati adoperati tutti gli aggettivi possibili. Nel corso di questa specie di telenovela, le forze che hanno poi dato origine al “governo del cambiamento” hanno già ampiamente dimostrato di essere disposte a tutto per conquistare le poltrone ministeriali. Nessun vero cambiamento dunque.
Il Quirinale, da parte sua, ha trovato che un ministro “anti-euro” come Paolo Savona, avrebbe “spaventato i mercati”, ma non ha trovato niente da eccepire per quanto riguarda Salvini agli interni e i suoi nauseanti propositi di espulsione di centinaia di migliaia di immigrati. La disperazione di questi uomini, donne e bambini non muove di un centesimo i listini di borsa e quindi si può ben lasciarli al loro destino!
Ma la cosa più importante è che, mentre si rappresentava, almeno in un primo tempo,l’Italia come un paese sconvolto da una sorta di guerra civile strisciante, che opponeva le “forze del cambiamento” ai vecchi arnesi della politica, cioè il PD e Forza Italia, nessuno si interessava veramente alle condizioni del “popolo”. Meglio ancora: i lavoratori, come classe sociale ben definita, con propri interessi specifici, non facevano e non fanno parte di questa rappresentazione. Possono al massimo essere gli ausiliari o anche la truppa di una delle fazioni contrapposte.
Sarà utile mettere in chiaro alcune cose. La condizione dei lavoratori salariati in questo ultimo periodo di “ripresa” economica, sono peggiorate. Lo testimonia il numero crescente di morti sul lavoro. Mentre i giornali erano pieni di commenti e interviste ai leader dei vari partiti e i “retroscenisti” formulavano ipotesi e cercavano di ricostruire le reali intenzioni dei Salvini e dei Di Maio, o si perdevano dietro alle varie componenti in cui si è decomposto il PD, nei cantieri, nelle fabbriche, lungo le strade e sulle linee ferroviarie, gli operai continuavano a morire. Non è una questione di “cultura della sicurezza” come si sente dire sempre più spesso. È il riflesso di rapporti di forza sempre più favorevoli al capitale e sempre più sfavorevoli al lavoro. È la paura di finire nella disoccupazione, e quindi nella miseria, a spingere i lavoratori ad accettare condizioni sempre più pesanti e rischiose di lavoro, è la corsa al profitto ad ogni costo che induce le aziende a risparmiare sui mezzi di protezione, sulla formazione, sulle procedure che attenuano i rischi.
I profitti aumentano. Sulla pelle dei lavoratori. Che siano i braccianti indiani dell’Agro Pontino o i giovani ridersdelle grandi città, passando per gli operai delle fabbriche e dei cantieri. E dalle casse delle imprese i soldi finiscono in quelle delle banche, che infatti hanno chiuso i bilanci trimestrali con ottimi profitti e hanno distribuito fior di dividendi. Le grandi famiglie della borghesia imprenditoriale sono sempre più ricche. Prima della crisi del 2008 bastavano 500 milioni di fatturato per far parte delle prime cinquanta ora ne servono tre volte tanto.
La vera contrapposizione è sociale e riguarda la massa del proletariato da una parte e la borghesia industriale e finanziaria dall’altro. Il tentativo di costruire altri “blocchi sociali” si scontra con la realtà. La Confindustria rilancia la sua parola d’ordine del fare sistema, trovando ampie disponibilità nei vertici sindacali, riproponendo lo schema che fu del corporativismo fascista: lavoratori e padroni insieme, senza conflitti, per la competitività del sistema industriale nazionale. Baggianate!Smentite oltretutto dalle stesse aziende che chiudono gli impianti in Italia per aprirli altrove. Trucchi per ottenere più soldi ancora dalle casse pubbliche e per torchiare al massimo la forza-lavoro.
Salvini e Di Maio hanno fatto appello al “popolo” contro i poteri forti che avrebbero condizionatoil presidente Mattarella nel negare la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia. Ma gli unici poteri forti sono quelli che il gran capitale esercita sulla società. Metterli veramente in discussione significa mettere in discussione il capitalismo. Ma né la Lega, né il Movimento 5 Stelle si sognano di farlo. Anzi, si propongono come i più seri e zelanti servi di questo sistema al quale vorrebbero portare il sostegno di un elettorato sempre più numeroso, ingannato da promesse irrealizzabili o incoraggiato nei peggiori pregiudizi xenofobi.
È vero che, fin da prima le elezioni del 4 marzo, gli esponenti più accreditati della grande borghesia, ai quali faceva da eco la grande stampa, si sono schierati per una coalizione di governo che mettesse insieme, in qualche maniera, il PD e Forza Italia. Ma questo non fa di Salvini e Di Maio dei campioni del “popolo”. È solo il sintomo di una profonda crisi politica che riguarda le forme di cattura e di organizzazione del consenso in tutti i paesi più sviluppati. La sopravvivenza dei partiti “populisti”, come partiti di governo, dipenderà dal loro adattamento alle esigenze del grande capitale, dipenderà dalla loro capacità di fare ingoiare ai lavoratori e ai ceti popolari i “rospi” che la grande borghesia ha in serbo per loro. La scommessa sarà di far apparire questi “rospi” delle caramelle al miele o, almeno, farli apparire molto meno grossi e indigesti di quelli già ingoiati col centrosinistra.
Nei prossimi mesi sentiremo i leader dei vari schieramenti fare appello ai più nobili sentimenti patriottici, già l’ex ministro del centrosinistra Calenda annuncia la prossima costituzione di un ampio “fronte repubblicano”, mentre Lega e Cinque Stelle promettono mobilitazioni contro lo scippo di “sovranità nazionale”.
In questa ennesima guerra da operetta non c’è proprio da schierarsi per nessuno. La battaglia che ci interessa è quella che il capitale continua a combattere, e a vincere, contro i lavoratori. È su questo fronte che bisogna impegnarsi.