In Turchia, il referendum sulla riforma costituzionale del 16 aprile si è concluso con il 51,37% di Sì a questa riforma, secondo un risultato non ancora ufficiale da confermare a fine mese. Per il presidente Erdogan è un successo più che risicato, in ogni caso lontano dal plebiscito che sperava.
È tanto più vero in quanto le principali grandi città del paese hanno per lo più votato No, in particolare Istanbul, Ankara, Izmir e Diyarbakir. Inoltre nel Sud-Est anatolico a maggioranza curda, vince senza sorpresa il No con risultati che vanno dal 57% all’80% secondo le province.
L'opposizione, ed in particolare il CHP (partito repubblicano del popolo, detto socialdemocratico), denuncia numerose irregolarità. Così la YSK (alto consiglio elettorale) ha considerato valide schede elettorali che non avrebbe dovuto conteggiare, poiché non avevano il timbro dell'autorità locale. Il numero di questi bollettini non validi sarebbe di due milioni e mezzo… mentre il Sì prevale con meno di un milione e mezzo di schede e, guarda caso, queste schede non timbrate ma accettate sono tutti voti per il Sì.
In realtà le irregolarità hanno segnato tutta la campagna. Il 95% dei media pubblici e privati è stato messo al servizio di Erdogan e del suo partito AKP. Il presidente stesso ha fatto campagna attivamente e quotidianamente, mentre la costituzione in vigore precisa che deve rispettare una neutralità integrale. Le riunioni dei fautori del No sono state spesso interrotte ed attaccate.
Erdogan ed i suoi sostenitori hanno cercato di mettere paura agli elettori, minacciando coloro che avrebbero votato No di essere considerati come terroristi della banda di Gülen o del PKK, o mettendo in guardia i credenti contro il fatto di “mettere in pericolo la loro vita dopo la morte”, ossia di non avere accesso al paradiso. Erdogan ha anche paragonato la sua storia personale, durante il colpo di stato fallito del 15 luglio scorso, con quella del profeta Maometto che sfuggì ai suoi persecutori quando lasciò la Mecca per Medina.
Quando Erdogan ha deciso questo referendum un po' più di due mesi fa, pensava di vincerlo di sicuro con più del 60% grazie al sostegno del partito di destra estrema MHP. Ma, poco dopo, questo partito che raccoglie dal 16 al 18% dei voti si è scisso ed una frazione importante del suo elettorato ha votato No al referendum. A ciò si aggiunge l'insoddisfazione di una parte dell'elettorato abituale dell’AKP, ormai toccato dalla crisi. Ciò spiega perché prima del referendum i sondaggi indicavano che la vittoria del Sì non era affatto scontata.
Se il risultato del referendum sarà confermato, Erdogan ed i suoi dovranno aspettare il termine della legislatura e dell'attuale presidenza, a fine 2019, per applicare la nuova costituzione. Questa prevede di concentrare tutti i poteri nelle mani del presidente della Repubblica. Non ci sarà più Primo Ministro, ma alcuni vicepresidenti, ministri ed un alto consiglio dei giudici, tutti nominati direttamente dal presidente. Anche l'instaurazione dello stato di emergenza potrebbe essere decisa dal solo presidente, senza l'avallo del Parlamento. In questo modo, Erdogan e l'AKP sperano di potere restare al potere fino al 2029, essere al riparo dalle azioni giudiziarie che li minacciano e sfuggire alla sorte che hanno fatto subire ai loro ex-associati gülenisti, alla prigione, alla confisca dei poteri e dei beni.
In realtà, questo voto non fa altro che iscrivere nella legge una pratica che era già quella di Erdogan e dell’AKP, ed un'evoluzione autoritaria del regime cominciata da tempo. Non è sicuro però che quello che viene chiamato “il nuovo sultano” possa reggere così a lungo. Anche truccati, i risultati del referendum mostrano il suo discredito crescente, dovuto al suo fallimento politico, in particolare nella sua politica siriana, e soprattutto alla crisi economica che peggiora. Forse ora sarà nel campo sociale che incontrerà le sue più grandi difficoltà.
J.S.