Recensione - Questa non è solo l’America

Qualche cosa di più di un instant book,ma molto di meno di una seria indagine sociologica, il saggio di Alan Friedman, “Questa non è l’America”, che furoreggia nelle librerie non rimarrà probabilmente nella storia, ma qualche verità riesce a mostrarcela. Si tratta in realtà di un lungo reportage, o di una serie di reportage messi in cantiere prima dell’avvento di Trump alla Casa bianca, ma che poi si sono sviluppati tenendo conto di questa nuova realtà politica. Anzi, il libro cerca di fornire proprio una spiegazione del successo di Trump attraverso le trasformazioni sociali che hanno interessato l’America negli ultimi decenni. Lo riduzione del welfare e la disgregazione delle garanzie per i lavoratori che sono continuati ininterrottamente da Reagan in poi. L’America che Obama ha “consegnato” a Trump celava, dietro le cifre sulla ripresa economica e la bassa disoccupazione, una realtà sociale drammatica.

Scrive Friedman: “Nel novembre 2016, mentre gli americani si turavano il naso scegliendo tra i due candidati più odiati della storia della nazione, in realtà molte persone avevano semplicemente perso fiducia in un futuro migliore, in un lavoro pagato decentemente e nella possibilità di accedere a un’istruzione di qualità per i loro figli. Si era persa la speranza di poter avere una vita migliore”. Secondo l’autore, “nel Paese più ricco del mondo, circa un terzo della popolazione nel 2015 viveva o sotto la soglia della povertà o a rischio di esclusione sociale”. Friedman lamenta la fine del “sogno americano” come collante ideologico che un tempo univa tutto il popolo. Con il nostro linguaggio, diremmo che la classe dominante americana non può più controllare la popolazione con i soliti strumenti politici e ideologici. Cerca di trovare altre idee, di alimentare nuove illusioni, di servirsi di un rancore sociale che è causato dai guasti della sua stessa società, guasti di cui lei è la prima responsabile. Ma in questo l’America non è diversa dall’Italia o da qualsiasi altro paese industrializzato.

Il razzismo, la xenofobia contro gli immigrati, il mito di una economia nazionale che basta a sé stessa, “America first”, tutta roba che non ha certo inventato Trump ma che questo miliardario istrione ha saputo combinare e utilizzare al meglio. Tra l’altro, i numeri, cioè i fatti, rivelano l’inconsistenza degli allarmi contro l’invasione degli immigrati messicani. Tra il 2009 e il 2014, scrive Friedman, sono arrivati negli Stati uniti 870mila migranti dal Messico, ma un milione di messicani, nello stesso periodo, è ritornato nel proprio paese.

Il libro contiene anche delle testimonianze interessanti di lavoratori dalle quali salta fuori la miserevole condizione di gran parte della classe operaia americana. Una “società WallMart”, così Friedman definisce l’America per quanto riguarda le condizioni della classe lavoratrice. I bassi salari che questo colosso della distribuzione paga ai propri dipendenti rendono indispensabili per i lavoratori le varie forme di sostegno statale al reddito che caratterizzano il welfare americano. In questo modo, i primi beneficiari della spesa sociale sono proprio quei grandi gruppi che retribuiscono i propri dipendenti sotto la soglia di sopravvivenza. Questo rapporto tra elemosine pubbliche e “sottosalari” privati, un modello che si ripropone in vario modo anche in Europa e soprattutto in Italia, riporta le condizioni del proletariato agli albori del capitalismo moderno.

Una buona parte del saggio di Friedman illustra i legami dell’amministrazione Trump con quell’establishment che nella demagogia della campagna elettorale annunciava di voler combattere. Spesso si tratta di ruoli di governo assunti direttamente da uomini dei grandi gruppi petroliferi, come il segretario di Stato Rex Tillerson, ex amministratore delegato della Exxon o uomini di Wall Street, come Steven Mnuchin, segretario al Tesoro.

Il libro si chiude con una frase che rimanda al titolo: “Questa non è l’America, è un altro posto”. Invece è proprio l’America. Anzi, non è solo l’America: è tutto il mondo capitalistico. E il valore del saggio di Friedman sta proprio nel fatto di averne fornito abbondanti conferme.

R.Corsini