Lo scorso 2 febbraio, a Tripoli, il primo ministro Gentiloni ha firmato un memorandum di intesa con FayezMustafaSerraj, capo del governo libico, o almeno di quello riconosciuto dall’Onu e dall’UE. Annunciato come un grande successo della diplomazia italiana, l’accordo in questione è incentrato sulla questione dei migranti che transitano in Libia e partono dalle sue coste per tentare di raggiungere l’Italia. In uno dei punti cruciali si legge che il governo di Tripoli, coadiuvato da quello italiano, dovrà “predisporre campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto il controllo esclusivo del Ministero dell’Interno libico, in attesa delrimpatrio o del rientro volontario nei paesi d’origine”.
In sostanza è una riconferma dei vecchi accordi con Gheddafi, che sono anche esplicitamente richiamati nel testo del memorandum. Giustamente, come allora, si sono levate molte voci di protesta, ricordando le condizioni spaventose dei “campi” di allora, ma anche di quelli già esistenti. Il caso del torturatore somalo, casualmente riconosciuto a Milano da alcuni suoi connazionali rifugiati in Italia, ha reso chiaro quali siano le atrocità alle quali si può andare incontro nei “campi”. Il procuratore Ilda Bocassini, che ha raccolto le testimonianze delle vittime ha dovuto riconoscere: “In quarant’anni di carriera non ho mai visto un orrore simile”. Senza entrare nei dettagli più raccapriccianti, si parla di stupri in serie, di torture, di omicidi.
Il ministro Minniti, che a quanto sembra funge da ministro degli Esteri oltre che da ministro degli Interni, afferma con sicurezza e soddisfazione: “È stata completata nei giorni scorsi la formazione del primo nucleodi equipaggi della Guarda Costiera libica”. Poi, sempre nelle stesse dichiarazioni rilasciate il 14 febbraio, vaneggia di controlli lungo la frontiera meridionale della Libia per impedire l’accesso dei migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana. Una cosa praticamente impossibile in uno stato dilaniato dalla guerra civile e i cui territori meridionali non sono che un’immensa distesa di sabbia.
Un miscuglio di cinismo e di improvvisazione, insomma, che finge di non vedere che il governo di Serraj non controlla nemmeno tutta la capitale, mentre le milizie del suo rivale Khalifa Ghwell occupano sei ministeri. La parte orientale del territorio, la Cirenaica, con capitale Tobruk, è invece in mano al generale Khalifa Haftar.
Gli interessi del capitalismo italiano in Libia sono sempre stati forti. L’Eni ha dettato le linee della diplomazia di tutti i governi italiani verso questa regione. In Libia ci sono enormi riserve di petrolio e di gas. Dal terminal di Melitah, attraversando 530 chilometri di tubature nel Mediterraneo, il gas libico arriva a Gela. Riportare la produzione a pieno regime significherebbe, per l’Italia e per l’Europa, diminuire significativamente la dipendenza dal gas russo. Non a caso proprio la Russia sta appoggiando il governo del generale Haftar, mentre Putin ha dato il via libera alla Gazprom per stringere accordi sia per il gas che per il petrolio nelle zone controllate dal governo di Tobruk.
Una partita complicata, i cui giocatori non sono certamente solo l’Italia, la Russia e le varie fazioni libiche. Gli Stati Uniti e la Francia hanno un ruolo di primo piano, e così una potenza minore come l’Egitto. L’attivismo dimostrato ultimamente dal governo Gentiloni è forse un tentativo di “marcare il territorio”, di segnalarsi in qualche modo come forza “egemone” in un paese che il capitalismo italiano considera tradizionalmente una propria sfera d’influenza. In ballo ci sono i profitti dell’Eni e di molte imprese italiane. Risolvere o far finta di risolvere il “problema” dei migranti è una parte di questa sceneggiata diplomatica. Poco importa se questo significa affidarli alle cure degli aguzzini.
R.Corsini