Secondo tutti i sondaggi, l’elettorato italiano (inteso come l’insieme di quelli che dichiarano di voler andare a votare alle prossime elezioni politiche, e quindi escludendo la non trascurabile massa di astensionisti) è ancora diviso in tre campi di dimensioni simili tra loro. C’è un terzo di elettori PD, un terzo di elettori Cinque Stelle e un terzo di elettorato di destra, che però non trova al momento un’unica coalizione alla quale accordare il proprio consenso e si divide fondamentalmente tra Lega e Forza Italia. Questo dato, vero o falso che si riveli alla prossima prova dei fatti, condiziona tutte le discussioni sulla futura legge elettorale. Dopo la batosta del referendum, il PD di Renzi ha sostenuto di voler andare rapidamente al voto. Più o meno la stessa cosa hanno detto le altre forze politiche, ma naturalmente ognuno fa i propri conti e calcola quale scenario gli sarebbe più favorevole. Una legge proporzionale costringerebbe i partiti a formare coalizioni per ottenere una maggioranza di governo. Sembrerebbe, al momento, l’esito più probabile.
La crisi del PD e di Forza Italia
Ma a complicare le cose, c’è la crisi interna sia al PD che ai partiti del centrodestra. Nessuno può dire se l’attuale segreteria del PD abbia veramente il controllo del partito. E nemmeno è certo che Renzi rimanga al timone del partito. Dopo l’esito del referendum sono aumentati gli scontri interni ed è difficile stabilire di quanto appoggio goda ancora Renzi nel PD. Ma la sua carriera dipende in primo luogo da quei settori di grande borghesia, italiana e straniera, che ne avevano sostenuto l’ascesa. Lo sosterranno ancora? Non è detto, quindi, che quello di Gentiloni come capo di governo sia un “contratto a termine”. Intanto, il governatore della Campania, De Luca - quello della “frittura di pesce” - si smarca da Renzi e lancia il suo movimento “Campania Libera”. Nello stesso tempo, si moltiplicano le liti tra esponenti del PD nei vari livelli dell’amministrazione locale, si attaccano i “renziani” e cresce la voglia di “rottamare il rottamatore”. Perfino il mansueto ministro Del Rio critica l’ex primo ministro: “L’errore più grave – dice – è aver messo se stesso davanti atutto. La politica è un’opera collettiva, la complessità del mondo moderno richiede tanti protagonismi: è statoun errore dare l’idea di voler fare tutto lui” (Corriere della sera, 19 gennaio ). Tra i critici più velenosi di Renzi, D’Alema, intervistato dal Corriere della sera, mette il dito nella piaga: “L’82% dei giovani ha votato No; e un partito che ha contro 8 ragazzi su 10 non ha futuro”. Ancora D’Alema, nella stessa intervista, promette di dar battaglia nel PD e di trasformare i comitati per il No al referendum dello scorso dicembre in comitati per “ricostruire il campo del centrosinistra”. Nel frattempo Renzi annuncia che se ne andrà in giro in pullman per l’Italia a ristabilire “il contatto con la gente”.
Nel centrodestra, a parte l’ostentata compattezza del partito di Salvini, costruita su pochi ma largamente condivisi pregiudizi e paure, Forza Italia non è riuscita a trovare un leader e un gruppo dirigente di ricambio. Il ritorno intermittente di Berlusconi aumenta la confusione tra le sue file. I Cinque Stelle non pagano ancora, in termini di consenso, sempre stando ai sondaggi, i disastri dell’amministrazione di Roma, ma non è detto che questa luna di miele con il proprio elettorato duri in eterno.
Le urgenze della grande borghesia
La grande borghesia italiana, si trova davanti alcuni nodi politici per i quali le è necessario un governo sufficientemente stabile. Ad esempio, si dice che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea farà crescere d’importanza il ruolo politico dell’Italia in Europa. Un potenziale che il capitalismo nazionale vorrebbe sfruttare a pieno e che esige gruppi dirigenti in grado di negoziare e di “imporsi” soprattutto con la Germania. Altro nodo è quello della Libia, paese nel quale il capitalismo italiano ha sempre avuto interessi rilevanti e che ora è diviso in zone controllate da varie fazioni in lotta tra loro, appoggiate da potenze esterne. Il governo accreditato dall’Onu non è quello che sul terreno dispone della maggiore forza. Invece il governo di Tobruk capeggiato dal generale Haftar ha al suo attivo diversi successi militari contro le milizie jihadiste e, oltre all’appoggio dell’Egitto, ha recentemente esibito l’appoggio della Russia di Putin.
Per il capitalismo italiano perdere il controllo dei giacimenti dell’Eni è fuori discussione. Da qui la necessità di un governo che sappia destreggiarsi nel vespaio libico senza perdere di vista l’interesse strategico dell’imperialismo italiano. A queste e ad altre urgenze deve corrispondere, nell’interesse della grande borghesia, un’iniziativa e una linea d’azione politica adeguate da parte del governo. Ecco come si pone, in concreto, il problema della stabilità e, quindi, delle leggi elettorali, con tutto il loro corollario insopportabile di tecnicismi. Ma questa necessità deve fare i conti con i “gusti” del pubblico. Cioè deve trovare la maniera, attraverso le formule politiche dei partiti, di ottenere un consenso elettorale sufficiente. Si tratta, come spesso si è detto, di “parlare alla pancia” dell’elettorato. Spesso però le parole d’ordine e i programmi elettorali più accattivanti non rispecchiano affatto le necessità dei grandi capitalisti, oppure le rispecchiano in minima parte. Tutta l’abilità dei leader politici sta qui: nel catturare, con l’inganno, il consenso delle masse, per poi metterlo al servizio di una politica di tutt’altro segno al servizio del gran capitale.
Le condizioni dell’economia
Intanto l’economia continua a stagnare o quasi. Il capitalismo italiano sembra eccellere soprattutto nella produzione di disoccupati: gli ultimi dati Istat riportano indietro gli indici di disoccupazione a 11,9%, con quella giovanile al 39,4%. Il governo Renzi ha elargito a suo tempo 15 miliardi alle imprese. Soldi che nella propaganda governativa dovevano servire ai famosi “investimenti” ma che sono rimasti nelle tasche degli imprenditori. Gentiloni, con il salvataggio del Monte dei Paschi, che è stato in realtà il salvataggio dei suoi grandi debitori, regala quasi nove miliardi alla banca senese, nel quadro di una legge salva-banche finanziata per 20 miliardi. Secondo il Codacons, associazione di consumatori, questo provvedimento costerà più di 800 euro ad ogni famiglia italiana in termini di debito pubblico.
Di fronte ai continui declassamenti dell’economia italiana, dalle agenzie di rating al Fondo monetario internazionale, di fronte all’ennesima letterina da Bruxelles sulla necessità di rivedere le previsioni di spesa pubblica, si moltiplicano le ricette miracolose all’inseguimento della “ripresa”. C’è chi promette un futuro sistema economico nel quale, ad esempio,l’istruzione giocherà un ruolo primario e dove aprire un’impresa altamente tecnologica sarà alla portata di tutti. Puntualmente, però, tutti questi “riformatori”, mentre rimandano agli anni a venire questi meravigliosi progetti, non si dimenticano di ricordare il gap di produttività oraria che separa l’industria italiana dalle concorrenti più sviluppate e, invariabilmente, riversano sui lavoratori, sui loro salari, sui modelli contrattuali, sulle residue garanzie rimaste loro, l’onere di colmare questo gap senza aspettare il futuro.
Intanto il perimetro della povertà continua ad allargarsi. Ci finiscono dentro non solo gli operai con bassi salari o quelli licenziati, non solo i lavoratori precari, ma anche piccoli imprenditori, artigiani e commercianti spazzati via dalla crisi e dall’agguerrita competizione internazionale.
In conclusione, nell’area dei paesi più sviluppati, l’Italia è uno di quelli dove risultano più evidenti e drammatici i guasti sociali dell’economia capitalistica. La crisi politica, inoltre, vi ha assunto un carattere quasi patologico. Da questa stessa crisi nascono di continuo e si ripropongono movimenti e partiti che fanno leva sullo scontento generale, sulla rabbia dei diversi strati sociali colpiti dalle assurde leggi dell’economia capitalista. Viene innalzata la bandiera dell’”onestà”, insieme a quelle del nazionalismo economico o magari del “governo forte”, diretto dal castigamatti di turno. Ma in un mondo irreversibilmente internazionalizzato, in cui la produzione dei beni e dei servizi è subordinata al profitto, nessun governo, per quanto “onesto”e neanche una dittatura, potrebbero far girare a pieno ritmo le ruote dell’economia nazionale e riempire i capannoni di nuove leve operaie.
L’era in cui il capitale suscitava e organizzava le forze della produzione è finita da un pezzo. Oggi la sua attività prevalente è la speculazione finanziaria che ha come sottoprodotto, molto spesso, la rovina di attività industriali, i licenziamenti di massa, l’impoverimento di intere regioni, la disorganizzazione della produzione.Ai demagoghi elettorali, anche a quelli che fingono di interpretare il “malessere” dei ceti popolari e di voler fare la guerra alle banche e alla finanza internazionale, è riservato, al massimo, il ruolo di trasformare questo “malessere” in voti e questi voti in sostegno a un governo che, qualsiasi colore si attribuisca, sarà sempre il governo del gran capitale.
R.Corsini