Dopo sette anni di vacanza contrattuale il Governo promette – ma non per tutti! – un’ottantina di euro di aumento (a regime, quindi fra tre anni) per il contratto dei dipendenti pubblici; per ora è solo una preintesa, opportunamente sfornata alla vigilia del referendum – ma evidentemente poco allettante per i dipendenti pubblici. La Ministra Madia ci tiene molto a sottolineare che sarà un aumento “medio”, non “minimo” come chiedevano i sindacati.
I medici degli ospedali, che abitualmente devono saltare ferie e riposi per non lasciare i reparti scoperti, non possono permettersi nemmeno di scioperare. Il loro contratto, come quello degli altri dipendenti pubblici, è rimasto fermo per sette anni, e altrettanto ferme sono le piante organiche per il blocco delle assunzioni. Chi è andato in pensione in questi ultimi anni non è stato sostituito, e il sistema ormai fa acqua da tutte le parti. La sanità è al collasso per mancanza di personale, ma la Commissione di Garanzia dell’attuazione della Legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ha vietato recisamente lo sciopero nazionale di 24 ore, proclamato per il 28 novembre dalle Organizzazioni Sindacali della Dirigenza medica e sanitaria pubblica, per chiedere il rinnovo del contratto di lavoro.
Testimonianze raccolte dal Fatto Quotidiano (22.11.16) parlano di situazioni paradossali, che puntano tutto sul ricatto delle urgenze quotidiane. Ferie arretrate e straordinari non retribuiti in Sanità ormai sono la norma; le 11 ore di riposo consecutive previste dalla direttiva europea sull’orario di lavoro sono disattese spesso, magari rimanendo in reparto anche dopo aver timbrato l’uscita, per non lasciare scoperti i servizi; capita – e non di rado – di saltare il recupero dei giorni festivi lavorati, e di superare le 48 ore settimanali di lavoro, compresi gli straordinari, previste dalla Direttiva europea.
E’ un esempio; qualcosa di simile a quello che capita in molti altri ambiti lavorativi del Pubblico Impiego. Ai lavoratori si chiede sempre di più, dando per scontato che non chiedano niente in cambio. Quel che è peggio, il rischio è quello di interiorizzare la situazione come la normalità, una situazione di fatto che – se paragonata alla condizione del lavoro in generale – tutto sommato appare ancora come vantaggiosa.
Al netto delle situazioni paradossali diligentemente messe in evidenza dagli organi d’informazione, la condizione del lavoro pubblico è ben lontana dalla caricatura che esce dalla gogna mediatica. Ma la predisposizione alla passività facilitata in questi anni da scioperi sporadici, intervallati da lunghissimi mesi di stallo assoluto, nel martellamento continuo di politici e opinionisti vari, che rilevano come la condizione di lavoratore pubblico sia privilegiata – per la relativa sicurezza del posto di cui gode, per i supposti scarsi carichi di lavoro, etc. - ha lavorato nelle coscienze. I dipendenti pubblici finiscono spesso per non sentirsi più nemmeno in diritto di mettere in atto una qualsiasi forma di protesta. E se lo fanno, capita che siano i primi a non crederci. Tanto è vero che in questi sette anni non abbiamo potuto assistere a proteste clamorose, e anche in questo scorcio di vertenza è difficile parlare di contratto trovando interesse, e predisposizione a lottare per ottenere quanto è dovuto. Eppure un aumento di 85 euro lordi a regime, quindi nel 2018 se tutto va bene, e in media, quindi molto meno per i livelli più bassi, e al netto dell’indennità di vacanza contrattuale, è soltanto una presa in giro dopo sette anni di blocco totale. E’ semplicemente vergognoso che sia stato proposto, e che i sindacati ne parlino come di una vittoria.
Chi ha esperienza delle passate tornate contrattuali ha assistito abbastanza allibito alle assemblee organizzate in vista degli incontri con il Governo. Non si è vista nessuna piattaforma seria, ma una serie di indirizzi vaghi e chissà quanto concretizzabili; non si sono sentite richieste di cifre certe. Le vecchie piattaforme, con le cifre precise elencate in base al livello, sono fantascienza. Al massimo si parla degli stanziamenti richiesti al Governo lungo il triennio. Apprendiamo solo dopo la conclusione dell’accordo quadro che una parte di questi grassi aumenti potrebbero essere corrisposti attraverso benefit “a integrazione delle prestazioni pubbliche”, sulla falsariga del contratto dei metalmeccanici. In cosa consisterebbero precisamente questi benefit, al momento comunque si ignora.
Dando uno sguardo ai quotidiani dell’ultimo mese, ci si può togliere lo sfizio di paragonare di passata con altre uscite la spesa prevista per il personale, che alla fine tiene in piedi – bene o male - tutta la baracca. La Repubblica del 23 novembre u.s., per esempio, ci aggiorna sulla vera e propria corsa agli armamenti in corso; i fondi reali sarebbero aumentati del 21% negli ultimi dieci anni. Presentarsi sui vari scenari di guerra in assetto da far perlomeno “bella figura” costerà l’anno prossimo 23 miliardi e 400 milioni, ossia 64 milioni al giorno. Per un esercito che, tra l’altro, conta curiosamente più graduati che truppa…ci sarebbero infatti 90.000 comandanti per 80.000 comandati. Il più spendaccione fra i Governi degli ultimi anni, in fatto di carrarmati, sarebbe stato quello del “sinistro” Pierluigi Bersani, che ha speso 27 miliardi. Per i lavoratori – dopo 7 anni di blocco - non ci saranno invece che 5 miliardi in tre anni.
Altra voce di spesa in aumento, secondo Repubblica, quella per il noleggio del nuovo Airbus presidenziale, che sarebbe stato usato una volta sola: 23 milioni e mezzo. Ma, ha dichiarato l’ormai ex premier Matteo Renzi: “Non è il mio! E’ un jet in leasing che serve a portare gli imprenditori a fare missioni all’estero”. Ci costano cari, i viaggi d’affari che paghiamo agli imprenditori.
Corrispondenza pubblico impiego