La scuola è una delle sovrastrutture cardine del capitalismo. Il suo ruolo non si limita ad imprimere alle nuove generazioni quella forma mentis grazie alla quale accetteranno il capitalismo e lo scambio mercantile come unico modo di produzione e distribuzione dei mezzi di sussistenza possibile, ma va oltre, occupando un posto chiave in quella questione nodale che è la riproduzione della forza-lavoro. Se è vero infatti che la scuola consegnerà ai figli della borghesia tutte le nozioni necessarie per diventare agenti del capitale e ai figli del proletariato le nozioni necessarie per essere sfruttati sul posto di lavoro, è vero anche che queste ultime varieranno di qualità a seconda degli stadi di sviluppo delle forze produttive del capitalismo di riferimento.
Ad esempio, se nell’Italia del 1960 l’imprenditore richiedeva per la sua fabbrica una forza-lavoro che sapesse leggere, scrivere e far di conto, all’imprenditore italiano del 2000 questo non bastava più, poiché le condizioni tecniche storicamente prevalenti richiedevano una forza-lavoro il cui livello di conoscenze fosse superiore (conoscenza base della lingua inglese, nozioni informatiche ecc…). Se quindi nel 1960 un operaio che avesse frequentato le elementari o al massimo le scuole medie era pronto per essere proficuamente sfruttato, l’operaio medio del 2000, per subire la medesima sorte, doveva avere almeno un diploma.
La scuola, specialmente nella qualità del suo “prodotto forza-lavoro”, è dunque in relazione con le esigenze del capitalismo nazionale di riferimento. Essa, ogni anno, sforna nuove leve di sfruttatori e di sfruttati, perpetuando i rapporti sociali dominanti, e plasmando i nuovi sfruttati a seconda delle esigenze prevalenti degli sfruttatori. In tutto ciò non vi è nulla di anomalo, poiché nel capitalismo, il ruolo della scuola è questo. Ma come ogni sovrastruttura, anche la scuola non riesce ad adattarsi immediatamente alle esigenze contingenti della struttura. Così, quando la variazione delle esigenze strutturali si dimostra abbastanza durevole nel tempo, la sovrastruttura cerca di porre rimedio a questo squilibrio con opportune riforme.
La riforma scolastica denominata “Buona Scuola” è stato il tentativo di adeguare la qualità della merce forza-lavoro sfornata dalla scuola italiana alle esigenze di un capitalismo che ha conosciuto un vasto processo di deindustrializzazione, che risulta oggi imperniato sul terziario, composto in larga parte da piccola e media borghesia che chiede la massima flessibilità della forza-lavoro al costo più basso possibile. Tra i punti della riforma più significativi in questo senso vi è sicuramente l’alternanza scuola-lavoro: un significativo pacchetto di ore (400 per gli istituti tecnici e 200 per i licei) che gli studenti dell’ultimo triennio dovranno passare obbligatoriamente nelle aziende, in qualità di forza-lavoro non specializzata, ovviamente gratuita.
La scelta del programma “didattico” una volta che lo studente entrerà in azienda, sarà a discrezione dell’imprenditore, mentre i corsi sulla sicurezza e prevenzione infortuni saranno a carico delle scuole, in modo che l’imprenditore sia sollevato da questa responsabilità e che lo studente non perda tempo e inizi quanto prima a lavorare. Pare superfluo sottolineare come non siano affatto compresi, nelle scuole, corsi per insegnare agli studenti a leggere una busta paga o ad apprendere le nozioni basilari dello Statuto dei lavoratori oppure dei contratti nazionali di quei settori ai quali la formazione di quella determinata scuola aprirà le porte. Bisogna poi si aggiungere che i genitori di uno studente nato nel 2000 sono entrati nel mondo del lavoro negli anni novanta, quando lotte operaie e coscienza sindacale stavano per toccare i minimi storici, e quindi potranno trasmettere ben poco di tutto ciò al figlio. Anche questo contribuirà a sfornare una leva di lavoratori che metteranno al primo posto la massima adattabilità alle esigenze dell’impresa.
Per questi nuovi lavoratori, l’azienda assumerà sempre più un aura di naturalità astorica e le sue esigenze non verranno messe in discussione allo stesso modo in cui non viene messa in discussione la pioggia che cade. La scuola, fino a ieri strutturata per fornire forza-lavoro specializzata ai grandi gruppi industriali capitalistico-statali e privati, sta cercando di adattarsi alle nuove esigenze piccolo borghesi, di aziende in larga parte improntate sui servizi, e quello sopra descritto sarà il portato ideologico che scaturirà, e che sta già scaturendo, da questo adattamento.
Sarà nostro compito di proletari coscienti cercare di porre un argine a questo fenomeno, e con determinazione, costanza e soprattutto grande pazienza, cercare di trasmettere alle nuove leve di proletari quante più nozioni possibili sul funzionamento del capitalismo, sul ruolo sociale del lavoratore dipendente all’interno di esso e sull’inconciliabilità delle esigenze del capitale rispetto a quelle del lavoro. In altre parole dovremo trasmettere loro la coscienza di classe, in una fase storica in cui questa trasmissione non è favorita dai vasti fermenti rivendicativi che hanno caratterizzato altre fasi storiche. Solo noi potremmo fare ciò, con le nostre sole forze. Il pensare che riforme scolastiche più o meno “progressiste” possano supplire al nostro lavoro di militanti sarebbe un grave errore. Equivarrebbe a sperare che la borghesia consegni al proletariato gli strumenti per mettere fine alla sua supremazia. Una follia.
P.Rosmar