Sui mass media della borghesia italiana quella del working poor è ormai una figura evocata con frequenza. Questo fenomeno – i lavoratori che, pur avendo un impiego, rimangono indigenti – è da tempo radicato nella società statunitense, ma in quella italiana è stato a lungo molto ridotto. Per decenni, nella seconda metà del XX secolo, ottenere un impiego significava in genere uscire dalla condizione di povertà. Essere lavoratori occupati non comportava l'accesso a beni di lusso o ad una garantita crescita nel tempo del proprio benessere economico (sempre di società capitalistica si trattava). Ma in linea di massima permetteva di pervenire a quelle basilari condizioni di vita (la possibilità di vivere in una abitazione dignitosa, sostenendone i costi, di possedere un mezzo di trasporto, di accedere con sicurezza a cure mediche e di sostenere le spese scolastiche dei figli) che invece erano precluse a quei settori della società che rimanevano nella sfera della povertà, in quanto disoccupati o in specifiche condizioni di disagio od emarginazione.
Sull'edizione online de La Stampa del 12 dicembre sono stati riportati dati eloquenti a proposito della condizione delle famiglie operaie: per loro la povertà assoluta ha cominciato a crescere già nei primi anni 2000 per poi esplodere; nel 2005 le famiglie operaie in povertà assoluta erano il 4,4%, nel 2009 erano il 6,9%, nel 2013 erano l’11,8%, e tali sono rimaste sino al 2015. In sintesi, l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie operaie è triplicata in 10 anni.
Il livello salariale italiano è da molto tempo inferiore a quello dei lavoratori di altre centrali imperialistiche. Quello che è intervenuto a modificare radicalmente il quadro sono stati soprattutto i processi che hanno colpito quello che a lungo è stato l'elemento cardine della condizione di relativa stabilità economica della classe operaia: la famiglia plurireddito. La crescente presenza nel tessuto sociale del capitalismo italiano di una famiglia con almeno due percettori di reddito ha posto le basi per un'evoluzione da cui deriva la situazione attuale. Il tratto proletario del nucleo famigliare, spesso “contaminato” dall'apporto di redditi di matrice piccolo-borghese o di forme di rendita, è stato compatibile, negli ultimi decenni del XX secolo, con un diffuso aumento dei consumi e un miglioramento del tenore di vita che però non derivavano essenzialmente da aumenti salariali. Anzi, la famiglia plurireddito ha nei fatti reso possibile una politica di contenimento salariale, dato che in ampi strati della popolazione si stava abbandonando il modello del nucleo famigliare imperniato economicamente su un solo salario. In poche parole, i salari potevano non crescere o addirittura perdere terreno, ma il reddito complessivo famigliare poteva stabilizzarsi o persino aumentare poiché andava aumentando il numero dei percettori di reddito.
Su questo modello si sono abbattuti i cambiamenti del nuovo millennio. La perdita dell'impiego o la sua precarizzazione, anche solo per uno dei percettori del reddito familiare, modificano una condizione di relativo benessere non determinata da alti livelli salariali, ponendo brutalmente all'ordine del giorno le difficoltà economiche nel sostenere le spese basilari di una famiglia non più fondata economicamente su molteplici redditi da lavoro dipendente “tradizionale”. Ecco che le cifre dell'Istat fornite da La Repubblica del 7 dicembre diventano, nella loro gravità, più comprensibili: sono 17,5 milioni i cittadini che rischiano, in Italia, l’esclusione sociale (il 28,9% della popolazione totale). Essi non sono in grado di far fronte ad imprevisti, sono in ritardo nel pagamento di bollette e mutui, non riescono a consumare un pasto adeguato ogni due giorni e non riescono a garantire alla famiglia una settimana di vacanza all’anno.
Sarebbe un errore, quindi, immaginare il recente passato come un'età dell'oro per la condizione salariata, una mitica stagione felice di alti salari a cui si potrebbe tornare affidandosi alla “giusta” forza politica borghese, al Governo “amico”. Le famiglie proletarie in Italia hanno beneficiato – enormemente meno delle componenti borghesi della società – di specifiche e transitorie fasi del mercato del lavoro, in cui, in virtù di cicli produttivi ora sostanzialmente esauriti e di politiche di spesa pubblica oggi meno sostenibili per l'imperialismo italiano, è stato possibile ampliare il bacino degli occupati stabili. Si è chiusa una stagione che aveva visto più redditi per famiglia, a prezzo di salari relativamente bassi ma in genere percepibili stabilmente. La situazione del mercato mondiale è cambiata e in esso è cambiato il livello di concorrenzialità dell'imperialismo italiano, i suoi margini di sostenibilità della spesa pubblica e si è acuita la sua esigenza di disporre di una forza-lavoro meno tutelata e più malleabile.
Il più evidente e aspro manifestarsi delle contraddizioni capitalistiche, l'aggravarsi delle ripercussioni che esse comportano per la classe operaia, non stanno ad indicare una fatale, automatica, crisi finale del capitalismo, in grado di determinarne la scomparsa spontanea dalla Storia. Anzi, sotto certi aspetti è un ritorno alla normalità, la disumana normalità capitalistica, della condizione della forza-lavoro, merce esposta alle dinamiche della concorrenza e alle variazioni del mercato, destinata ad essere impiegata e ad avere pieno diritto all'esistenza solo se funzionale agli interessi capitalistici. La manifestazione più dura della condizione precaria della nostra classe va oggi compresa, senza sterili messianismi. Va compresa nelle sue molteplici, concrete ripercussioni, sociali e politiche. Una comprensione che deve inserirsi in una strategia rivoluzionaria.
P.R.