Se il lavoro è una merce, di sicuro è una merce a svalutazione progressiva. Mentre la propaganda governativa continua a sfornare dati più o meno illusori sui benefici effetti del jobs act e sulla millantata stabilità dei contratti, la realtà si incarica di mostrare il lato vero degli attuali rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Non era necessario essere osservatori particolarmente acuti per prevedere quello che in effetti è successo nei primi cinque mesi del 2016; bastava essere dotati di semplice buon senso per capire che l’apparente incremento dei contratti di lavoro cosiddetti “stabili” – in realtà stabilmente precari – era dovuto più agli incentivi generosamente elargiti alle imprese che agli effetti salvifici del jobs act. Tra gennaio e maggio 2016 il saldo dei contratti presunti stabili ha subito un crollo del 78% rispetto agli stessi mesi del 2015. Per la precisione, si è passati dal saldo positivo di 379.000 contratti nel 2015 a un ben più striminzito saldo di 82.000 unità nel 2016, addirittura meno che nel 2014, anno senza jobs act, quando il dato era di 122.000 nuovi contratti di lavoro, autenticamente stabili.
“Da quando gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato sono dimezzati, le imprese hanno smesso di investire sui contratti a tutele crescenti” (Il Fatto Quotidiano, 19.7.16). Investire è un parolone. Per il costo del lavoro, i padroni sono disposti – da sempre – a investire il meno possibile; ma oggi hanno a disposizione numerosi strumenti per avvicinarlo sempre di più alle condizioni – per loro – ideali. Niente, se non la resistenza organizzata dei lavoratori, può convincere le imprese ad andare in direzione contraria alla propria convenienza. E infatti, a fianco dell’iniziale entusiasmo per le assunzioni alleggerite dei contributi, le cronache registravano già dal 2015 una crescita impetuosa nell’uso dei cosiddetti vouchers, i buoni lavoro acquistabili in tabaccheria. Anche solo nella forma di acquisto, questi buoni descrivono il lavoro nella sua forma essenziale di merce: e infatti si acquistano dal tabaccaio, come un qualsiasi altro bene di consumo, un pacchetto di caramelle o un chilo di sale fino. Invece di assumere con un contratto qualsiasi, in una delle tante forme possibili, a termine, a chiamata, etc. il datore di lavoro acquista un po’ di vouchers e ha a disposizione un lavoratore utilizzabile a piacere. Partiti in sordina nel 2008, con un uso limitato a prestazioni occasionali, nello stesso periodo che abbiamo preso in esame, cioè i primi cinque mesi del 2016, ne sono stati venduti 56,7 milioni, con un incremento del 43% rispetto al 2015. Che d’altronde aveva già visto, rispetto al 2014, uno spettacolare aumento del 72,5%. Dal 2008 in poi il numero dei vouchers è aumentato di ben 129 volte!
Altro che lavori domestici e attività occasionali in agricoltura: ormai queste forme di lavoro, alle quali erano destinati, rappresentano una sciocchezza rispetto al totale. Per le prime non si arriva al 3%, per le seconde si sfiora soltanto il 7%. Per colmo d’ironia, proprio il jobs act ha sostituito con i vouchers alcune tipologie di contratto che ha eliminato, allargando a 7.000 euro la quantità di vouchers incassabile da parte di ogni lavoratore. Quindi, per capirsi, si sostituiscono i contratti a progetto con un foglietto. Va da sé che l’uso di questi “buoni” è estremamente flessibile: si possono acquistare e mettere da parte per ogni evenienza, come ad esempio coprire una serie di ore lavorate in nero, e soprattutto non ci sono vincoli. Il datore di lavoro non sottosta a nessuna regola o contratto di lavoro, non deve firmare niente, non ha da concedere ferie, malattie, permessi, non ha obblighi di nessun genere una volta risolto il rapporto di lavoro. Di fatto non esiste nemmeno un rapporto di lavoro, ma un semplice acquisto di merce. Si compra il voucher come si compra, appunto, un sacchetto di caramelle. Il lavoratore sta da solo di fronte al padrone, vendendo le proprie braccia, come se fosse su un piano di assoluta parità, mentre in realtà i piani sono a distanza siderale: il padrone paga semplicemente una prestazione, ma non assume una persona. E’ il sogno del capitale: sfruttamento puro e nessuna responsabilità sociale.
Ogni voucher vale 10 euro, e di questo valore nominale il lavoratore riceverà 7,5 euro – paga oraria minima. All’Inps vanno 1,30 euro, 0,70 all’Inail, 0,50 al gestore del servizio. In teoria si presenta come una forma alternativa al lavoro nero, con la possibilità di accantonare contributi pensionistici; in realtà, oltre a non evitare il nero, anzi probabilmente a favorirlo, i contributi accantonati sono ridicoli. La Cisl ha calcolato che in sei mesi di lavoro pagato con i vouchers si accantonano all’Inps gli stessi contributi previdenziali maturati da un lavoratore in due mesi di lavoro a mille euro. Per maturare una pensione minima, un lavoratore pagato a vouchers dovrebbe faticare 126,5 anni. Buon per lui se ci arriva. Il Presidente dell’INPS Tito Boeri ha definito questo lavoro senza tutele “la nuova frontiera del precariato”. A ben guardare, non si tratta di aprire soltanto nuove frontiere nelle forme di lavoro: quello che si persegue è proprio l’abbattimento di qualsiasi frontiera.
Difficile credere alle reali intenzioni di disciplinare i vouchers con una nuova normativa, obiettivo ampiamente pubblicizzato dai media all’inizio dell’estate, e per ora sospeso in una bozza. Le modifiche non restringeranno l’ambito di utilizzo, ma dovrebbero riguardare un percorso di tracciabilità, con l’obbligo di comunicare all’INPS l’inizio della prestazione lavorativa almeno un’ora prima. I controlli sarebbero affidati ovviamente all’Ispettorato del Lavoro, costantemente depotenziato tanto da non riuscire a svolgere nemmeno i controlli relativi a tutte le altre forme di contratto. La pezza è virtuale, lo sfruttamento rimane reale.
Aemme