Striscioni e cartelli nei quali si chiede “Verità per Regeni” sono stati esposti nei campi di calcio italiani, per essere visti da milioni di spettatori, Verità chiedevano anche i giovani che hanno animato una manifestazione a Cambridge, l’Università per la quale Giulio Regeni faceva il ricercatore. Verità chiedono, naturalmente, i genitori del ragazzo ucciso, e il ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, ha detto più volte che l’Italia pretende la verità e che non si fermerà, nelle sue indagini e nelle sue pressioni nei confronti delle autorità egiziane, fintanto che questa non verrà a galla. Ma c’è da dubitare che questa verità venga alla fine svelata.
Scomparso il 25 gennaio dall’appartamento che aveva affittato al Cairo, città dove svolgeva la sua attività di ricercatore, Giulio Regeni viene ritrovato in un canalone a lato dell’autostrada Cairo-Alessandria il 3 febbraio. Appaiono evidenti i segni di torture prolungate. Seguono varie versioni, una più incredibile dell’altra, da parte delle autorità egiziane, sui motivi dell’omicidio e sul tipo di attività e di frequentazioni di Regeni, nelle quali sarebbe maturato il crimine.
Le dichiarazioni di disponibilità alla collaborazione con gli organi di polizia italiani e di volontà di far piena luce sull’accaduto da parte dei vertici egiziani, ripetute dallo stesso capo del governo, Al Sisi, si scontrano con una realtà fatta di continui tentativi di depistaggio. Fino all’episodio dell’uccisione di una banda di cinque “sequestratori”, il 24 marzo, da parte delle forze di sicurezza egiziane. Nella casa della sorella di uno di loro vengono“trovati” il passaporto e altri documenti del Regeni. Una “oltraggiosa messa in scena”, come la definiscono i genitori di Giulio.
Alla disponibilità dichiarata, da parte del governo egiziano, di una conduzione comune dell’indagine con gli organi di polizia italiani, seguono una serie di depistaggi e di difficoltà burocratiche. In seguito al sostanziale fallimento di un incontro avvenuto a Roma tra procuratori italiani ed egiziani, l’8 di aprile, il governo italiano decide di richiamare in patria il proprio ambasciatore al Cairo, “per consultazioni”. È una formula che si usa in diplomazia per segnalare un raffreddamento delle relazioni fra due paesi, se non proprio l’inizio di una crisi politica. I mezzi d’informazione accreditano l’intenzione del governo italiano di “andare fino in fondo”.
Giulio Regeni non è certamente l’unica vittima di settori di apparati di sicurezza più o meno obbedienti al governo egiziano. Amnesty International denuncia 88 casi di rapimento e tortura solo dall’inizio del 2016. Ma ciò che ha fatto rumore è il fatto che stavolta la vittima non è un egiziano. Rumore ancora più grande se si pensa agli ottimi rapporti d’affari che intercorrono tra Egitto e Italia, rapporti mai turbati dalla consapevolezza dei metodi della polizia egiziana.
Va bene i diritti umani ma…
Che Regeni sia stato torturato e ucciso da avversari di Al Sisi interniai servizi di sicurezza, per metterlo in difficoltà con un importante partner economico, oppure che si sia trattato di un’azione sfuggita di mano a chi l’aveva pianificata, magari nell’ambito della repressione delle attività del movimento sindacale, oggetto della ricerca del giovane assassinato, non cambia molto la sostanza delle cose. Il governo italiano, com’è naturale, deve fare la voce grossa, commuoversi, indignarsi, minacciare provvedimenti più energici, ma i grandi gruppi capitalistici che, a cominciare dall’Eni, stanno facendo affari d’oro in Egitto, non hanno nessuna intenzione di rinunciare ai loro profitti.
Fin dall’inizio di questa vicenda, la grande stampa italiana, ha tenuto due registri nei commenti giornalistici. Da una parte si denunciava l’orrore di un omicidio tanto feroce, dall’altra si faceva capire che “però” tali e tanti sono gli interessi economici e politici che consigliano di mantenere buoni rapporti col regime egiziano, che, insomma, non è il caso di farla tanto tragica. Non è all’Eni che l’Egitto ha affidato la concessione per lo sfruttamento di quello che promette di essere il più grande giacimento di gas del Mediterraneo? Non ci sono contratti in sospeso per cinque miliardi? Non è forse l’Egitto uno dei partner fondamentali nella lotta internazionale alterrorismo?Non è il governo di Al Sisi che è stato definito da Renzi un partner indispensabile per la stabilizzazione della Libia?
Una “squadra di professionisti” che tortura e uccide
Il giorno successivo all’annuncio dello “strappo” con l’Egitto, il 9 aprile, il quotidiano Il Messaggero ospitava in prima pagina un articolo di Alessandro Orsini, editorialista e autore di diversi studi di politica internazionale e sul terrorismo. Con insolita chiarezza, l’articolo iniziava in questo modo: “I Paesi possono interrompere le relazioni diplomatiche, ma conservare i rapporti commerciali”. Potrebbe succedere tra Italia ed Egitto, che “attraverso lo scontro sulla tragica morte di Giulio Regeni, stanno cercando di definire i loro rapporti di forza nel Mediterraneo, in vista della ricostruzione della Libia”.
Una considerazione ulteriore, che mette i brividi ma che suona assai realistica, ci fa capire quanta poca verità ci sia da aspettarsi nella conclusione di questa vicenda: “Al Sisi non può aiutare l’Italia a individuare il responsabile della morte di Regeni per due ragioni. La prima è che Regeni non è stato ucciso da una singola persona, ma da una squadra di professionisti. Studiando le torture sui prigionieri politici, si scopre che i torturatori si compongono di unità che non sono mai inferiori alle quattro persone. È riscontrato inoltre che, più è lungo il tempo di detenzione, maggiore è il numero dei torturatori, i quali devono vegliare sul torturato per impedirgli di dormire. Il fatto che i torturatori debbano darsi il cambio per coprire le ventiquattr’ore accresce il loro numero. Regeni è stato sequestrato per almeno dieci giorni…Al Sisi non può consegnare un numero così elevato di torturatori senza essere travolto dalla reazione dei governi dell’Unione Europea”.
La seconda ragione è che indicando i veri colpevoli cederebbe alle pressioni della magistratura di un paese straniero, indebolendo il proprio regime sul piano interno “giacché nessun dittatore può fare il dittatore senza che la polizia si senta sicura di poter uccidere impunemente”. Ma anche sul piano della politica estera il regime egiziano risulterebbe indebolito e poco credibile perché apparirebbe sottomesso al governo italiano.
Le considerazioni dell’editorialista del Messaggero ci mostrano la realtà dei rapporti tra potenze grandi e piccole. Forse i rispettivi interessi condurranno le diplomazie egiziana e italiana a confezionare una ricostruzione “accettabile” della tragedia di un ragazzo straziato per giorni e giorni da una squadra di sadici professionisti.
Nel frattempo l’unica verità che risulta sempre più chiara è che la vita umana non conta niente di fronte ai calcoli della politica di potenza e di fronte alla macchina del profitto che nutre questa politica e la sottomette.
Lo scorso agosto, annunciando la scoperta del grande giacimento di Zohr, nelle acque egiziane, l’amministratore delegato dell’Eni, De Scalzi, sottolineava gli ottimi rapporti dell’azienda petrolifera italiana con l’Egitto. Con le parole di De Scalzi, “un’alleanza che dura da oltre sessant’anni”. La morte di un giovane ficcanaso è un prezzo più che accettabile per continuare a far quattrini con il gas egiziano.
R.Corsini