Non pago dei vistosi tagli a occupazione e salario nel Pubblico Impiego, il Governo dirige la sua attenzione sulle società partecipate pubbliche. Previsti – tanto per cambiare - altri 100.000 esuberi.
Secondo un recente rapporto della Funzione Pubblica Cgil, che ha studiato gli effetti del blocco della contrattazione nel Pubblico Impiego sui dipendenti comunali impiegati in 17 comuni capoluogo, le buste paga hanno registrato dal 2010 al 2014 un calo del salario medio del 2,5%, dovuto soprattutto al crollo della voce “salario accessorio”, che nel corso di questi anni “ha segnato una flessione complessiva del -15,69%” (La Repubblica Economia, 6.2.16). In barba al decreto legge 78/2010, emanato ai tempi di Tremonti, che prevedeva proporzionalità tra riduzione del salario accessorio e numero degli addetti, questi ultimi sono diminuiti dell’8,52%. Di conseguenza, gli Enti locali hanno evidentemente fatto cassa sulle spalle dei lavoratori, e non in scarsa misura. A ogni lavoratore il blocco è costato in media circa 740 euro l’anno.
Ma ce n’è per tutti. La notizia sulle partecipate è solo l’ultima in ordine di tempo, ma rappresenta una minaccia non da poco sulla testa dei dipendenti di questi organismi. Per chiarire preventivamente di cosa stiamo parlando, le società partecipate hanno cominciato a proliferare a partire dall’inizio degli anni ’80, e risponde parzialmente a verità che spesso sono state costituite per eludere i vincoli di finanza pubblica imposti agli enti locali, o per creare organismi da affidare alla gestione dei vari politici trombati di turno. Si tratta infatti di società ibride, in genere a capitale interamente pubblico, e con il vincolo di poter svolgere la loro attività solo per conto dell’ente proprietario, ma con forme societarie tipiche del diritto privato (società per azioni e a responsabilità limitata, consorzi, fondazioni, istituzioni, aziende speciali…). Organismi che agiscono in parte autonomamente dall’Ente proprietario, e gestiscono attività varie.
Circa il 35% delle società partecipate si occupa di servizi pubblici locali, il resto di altro: dalle farmacie alle funzioni di assistenza sociale e sanitaria alle attività culturali e sportive e di supporto tecnico alle imprese, agricoltura, pesca, porti, casinò, etc.
Va da sé che un ambito di attività così vasto è molto appetibile anche dalle imprese private, il che spiega in buona misura – specialmente negli anni recenti - il dispiegamento in forze dell’armamentario ideologico a servizio degli interessi privati confindustriali. Con il relativo corollario, adeguatamente supportato dai media, sull’inefficienza delle partecipate, sulla concorrenza sleale – in quanto esclusive depositarie della gestione di determinati esercizi – nei confronti delle possibili e naturalmente più efficienti gestioni private, sugli sprechi correlati, sulla fabbrica di poltrone per i politici di turno, e finalmente sulla pletora di dipendenti “fannulloni” che ne costituiscono l’ossatura.
Più volte Confindustria si è occupata delle partecipate, proprio per invocare la privatizzazione dei servizi pubblici da esse gestiti, adducendo a motivazione inefficienze e sprechi. Per quanto non manchino né le une né gli altri, è improbabile che le preoccupazioni di Confindustria siano rivolte a questi aspetti; più plausibile lo spiccato interesse delle imprese per tutti quei settori sottratti a possibili succulenti profitti privati.
Poteva trascurare le sollecitazioni di Confindustria il Governo Renzi, probabilmente il più ossequioso degli ultimi anni per le istanze dei padroni? D’altra parte, raramente le attenzioni nei confronti delle partecipate sono state dirette a migliorarne il funzionamento. Una volta che il sistema sia stato lasciato degenerare a sufficienza, si può cominciare a smantellare il servizio pubblico, e cominciare a parlare tranquillamente di esuberi e relativi tagli al personale.
L’ultimo decreto adottato in ordine di tempo persegue l’obiettivo di passare da 8.000 a 1.000 società partecipate, lasciando sopravvivere soltanto quelle che producono beni e servizi “strettamente necessari per il proseguimento delle proprie finalità istituzionali”. Quelle che non rientrano nella casistica, dovranno essere sottoposte a “razionalizzazione, fusione o soppressione”, e secondo stime ISTAT l’operazione consentirà di fare a meno di circa 100.000 lavoratori, dei quali potranno essere riassorbiti solo quanti prima lavoravano per la Pubblica Amministrazione, e risultano quindi vincitori di pubblico concorso. Per i loro colleghi, invece, sono pronti - qualora ne abbiano i requisiti – cassa integrazione, mobilità e disoccupazione. Difficilissimo che i servizi pubblici ne traggano un qualunque giovamento.
Secondo i sindacati si tratta di un processo così complesso da costituire un’operazione demagogica di pura propaganda…salvo ritrovarsi poi a fronteggiare impotenti l’ennesima ondata di crisi occupazionale.
Corrispondenza Pubblico impiego