La ricetta della “comunicazione” di Renzi è abbastanza semplice. Si prendono le statistiche e si fa dire loro ciò che non dicono in realtà. Ad esempio i numeri dell’INPS sull’occupazione si riferiscono alle assunzioni e non alle persone occupate in un anno. Così se un disoccupato, nel corso del 2015, ha lavorato per tre datori di lavoro diversi, risulteranno tre posti di lavoro, ma la realtà è quella di un lavoratore solo, che probabilmente tra un lavoro e un altro, è rimasto qualche mese disoccupato. Quanto poi a vantarsi della prevalenza delle assunzioni a tempo indeterminato, il gioco è talmente sporco che solo qualche sprovveduto può ancora crederci. Con il Jobs Act si è semplicemente estesa la precarietà a tutte le assunzioni. Se si prende una bottiglia d’acqua e ci si mette sopra un’etichetta con scritto “Barolo”, non per questo l’acqua smette di essere tale.
Ma i titoloni dei giornali ribadivano, i giorni scorsi, che ci sono stati nel 2015 ben 800 mila posti di lavoro in più. Così, magari uno pensa che solo la sua città è la più disgraziata: aziende che chiudono, serrande abbassate per cessazione attività, figli che ti raccontano della lista infinita di curriculum che hanno inviato senza nemmeno l’ombra di una risposta. Poi accende la televisione, guarda il telegiornale e vede a Roma il presidio dei lavoratori sardi dell’Alcoa, i cortei dei siderurgici di Genova, quell’azienda di Savona che, alla zitta, ha fatto trovare chiusa la propria sede agli operai che si recavano al lavoro… una serie lunghissima di testimonianze sulle singole aziende che riducono il personale, si “delocalizzano”, chiudono.
E i giovani cercano fortuna altrove. Riprende l’emigrazione, quasi scomparsa negli scorsi decenni. Si va in Germania o in Inghilterra o in Australia, come negli anni ’50. Il fenomeno non riguarda solo i “cervelli in fuga”, ma tutte le figure professionali, dagli operai ai tecnici, agli ingegneri.
Dunque, dietro alle chiacchiere di Renzi non c’è proprio niente per i disoccupati e per i lavoratori. Niente se non l’accomodarsi alle pretese del gran capitale, dalle banche alle grandi imprese. Per questi, in una forma o nell’altra, i soldi si trovano sempre, che si tratti di salvataggi, di sgravi contributivi o di una concezione, diciamo… “flessibile”, della lotta all’evasione fiscale.
La disoccupazione e la povertà si possono combattere soltanto con mezzi drastici che non arretrino di fronte al tabù del profitto. La storia del movimento operaio ci ha consegnato le rivendicazioni da portare avanti: riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, distribuzione del monte ore di lavoro esistente fra occupati e disoccupati di una stessa branca produttiva, salario garantito ai disoccupati. Ora l’uno, ora l’altro di questi obiettivi, hanno caratterizzato l’atteggiamento politico della classe operaia nei suoi momenti di forza.
Ma la povertà “preoccupa seriamente” anche il Ministro Poletti che ha annunciato un Piano straordinario. Sarebbe “straordinario” se qualcuno lo prendesse sul serio. Le famiglie in povertà assoluta, secondo le statistiche ufficiali, sono 1470 mila, circa 4 milioni di persone. Il governo progetta di stanziare 800 milioni l’anno, mentre le stime più restrittive di sociologi, economisti e centri di ricerca valutano la spesa necessaria a 7 miliardi almeno. Un riformismo straccione, dunque, con il quale Renzi e i suoi pensano forse di accaparrarsi qualche consenso elettorale in più a prezzi da discount.
A guastare la festa ci si è messa anchel’OCSE, Renzi aveva appena estratto dal cappello a cilindro il coniglio di pezza della ripresa economica, che l’organizzazione delle più forti economie industrializzate del mondo ha fatto sapere che le stime di crescita per il 2016 in Europa sono state ridotte. In Italia sono diminuite all’1%, da un già poco esaltante 1,4%.
Il quadro in sostanza è questo: un’economia capitalista che ristagna, nella quale l’Italia ristagna un po’ di più, un governo che finge di controllare la situazione ma che è solo il volenteroso esecutore dei desideri della grande borghesia.
È possibile una via d’uscita? Sì: se la classe lavoratrice riuscirà a sviluppare una propria azione politica, indipendente dai condizionamenti del capitale, con un proprio programma di rivendicazioni fondamentali, e soprattutto se saprà lottare duramente per queste. Il lavoro umano ha prodotto e sta producendo ricchezze immense, non è scritto in nessun testo sacro che solo una minoranza privilegiata debba accaparrarsene la parte più grande per sempre. Ogni persona ragionevole capisce che una seria lotta alla povertà e alla disoccupazione si può fare solo a condizione di spostare una parte di queste ricchezze dal consumo parassitario delle classi ricche all’utilità sociale della collettività.