Gli effetti mirabolanti sull’occupazione che avrebbe dovuto avere la nuova disciplina sul lavoro – almeno secondo la propaganda governativa – a un anno dal varo sono limitati, se non inconsistenti. In compenso, arrivano i primi licenziamenti targati “Jobs act”, e l’abbattimento delle tutele sul lavoro è evidente anche per i più disponibili a prendere per buone le fanfaronate del Governo.
Ai primi di dicembre 2015 è stata pubblicata la prima ricerca accademica sugli effetti della riforma del Lavoro in Italia, finanziata dalla Commissione Europea. Lo studio era stato affidato a tre ricercatori italiani: Dario Guarascio, Valeria Cirillo e Marta Fana, tra l’altro la prima ad accorgersi dell’errore di agosto (volontario o involontario non si sa) sul numero dei contratti a tempo indeterminato aggiuntivi realizzati nello stesso periodo del 2014 (il ministro Poletti aveva spacciato una cifra doppia del reale, 630.000 anziché 327.000).
Di questa ricerca (“Labour market reforms in Italy: evaluating the effects of the Jobs Act), uscita senza clamori e scarsamente pubblicata sui media, ha parlato con parecchi particolari il Fatto Quotidiano del 9.12.15. L’esperienza diretta dei lavoratori poteva già dare ampie risposte alla sostanza della riforma, ma i dati specifici aiutano a capire quanto poco contino le chiacchiere di fronte ai fatti. Il fallimento del Jobs Act nello stimolo all’occupazione, secondo il rapporto, “E’ confermato dal flusso di lavoratori che sono usciti dallo stato di disoccupazione tra primo e secondo trimestre del 2015 [...]. I flussi del mercato del lavoro per l’Italia mostrano una massiccia transizione dalla disoccupazione all’inattività (35,7%), mentre la transizione verso l’occupazione è più bassa della media europea (18,6% contro 16%). Mentre i disoccupati non hanno un impiego ma lo cercano, gli inattivi non ci provano neanche”. Smettono semplicemente di cercarlo… Ma non solo: “I dati amministrativi mostrano che tra gennaio e luglio 2015 solo il 20% delle nuove assunzioni hanno un contratto a tempo indeterminato. [...] E’ bene notare che un aumento generale nella quota dei contratti a tempo indeterminato si può osservare in un breve periodo tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015. A sorpresa, da marzo 2015 questo aumento del tempo indeterminato comincia chiaramente a invertirsi a ritmi rapidi. Infatti il 63% dei nuovi lavoratori (158.000 su 253.000) nei primi nove mesi del 2015 hanno un contratto a termine ”. E per finire: “I nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti guadagnano uno stipendio mensile più basso dell’1,4% rispetto a quanti assunti un anno prima con il vecchio contratto a tempo indeterminato”. Inoltre: “I contratti part-time sono più diffusi all’interno dei nuovi contratti stabili che in quelli a termine”.
Chiaramente le imprese hanno approfittato di tutti i vantaggi offerti dalla nuova legislazione sul lavoro, non esclusa – naturalmente – la maggiore debolezza dei lavoratori. E’evidente infatti che i nuovi contratti hanno un’unica caratteristica chiara, e non si tratta di “tutele crescenti”, ma semplicemente di lavoro stabilmente precario – precario a tempo indeterminato. Non a caso la stessa riforma favorisce l'ulteriore liberalizzazione del lavoro cosiddetto “atipico”, ma in realtà sempre più “tipico”, quello svolto tramite i “voucher”: La loro espansione va di pari passo con l’applicazione del Jobs Act, tanto che nei primi nove mesi dell’anno ne sono stati già venduti oltre 81 milioni, con una crescita su base annua del 70%. La conclusione a cui giunge lo studio è lineare: dal 1997 sono state sistematicamente smantellate le tutele sul lavoro, sempre sbandierando l’obiettivo di voler incrementare l’occupazione. Ma, nonostante i licenziamenti più facili, i contratti temporanei e flessibili, gli incentivi alla contrattazione aziendale “Le dinamiche dell’occupazione e della produttività non sembrano essere state rimodellate in modo rilevante durante il periodo delle riforme”. E, se a novembre il tasso rilevato dall’ISTAT dava una diminuzione della disoccupazione fino a raggiungere l’11,3%, con un aumento dell’occupazione generale dello 0,1% (Corriere della Sera, 7.1.16), il dato non pare in effetti particolarmente “rilevante”.
Partono intanto i primi licenziamenti del dopo Jobs Act. Il Ministro del Lavoro Poletti può biasimare quanto vuole quelli effettuati alla cartiera Pigna di Tolmezzo (Udine): “Non sono un imprenditore, ma per me è una scelta irrazionale[...] Con il Jobs act licenziare non conviene” (Il Fatto Quotidiano, 19.11.15). Il nostro vorrebbe insegnare agli imprenditori come si fa l’imprenditore, ma quelli sanno già come si fa. Ha voglia a predicare che il costo orario di un tempo determinato è più alto di un contratto a “tutele crescenti”…loro lo sanno che un tempo determinato lo devi pagare finchè non scade il contratto. Invece un assunto con il Jobs Act lo puoi licenziare quando ti pare! E ti conviene pure, perché con gli sgravi fiscali ci hai guadagnato tanto che licenziare un lavoratore a un anno dall’assunzione, pur con le dovute indennità, non ti costa nulla, o addirittura ci guadagni pure. Ma forse il Ministro Poletti vorrebbe solo darla a intendere…lo sa anche lui come va il mondo. Altrimenti non farebbe parte di un Governo che ha tagliato il collo all’articolo 18.
Aemme