“Tagliare le tasse è bello, soprattutto se sei dall’altra parte […] La manovra accoglie le nostre richieste, spero che non cambi” (Il Sole 24 ore, 19.10.15): così Confindustria, per bocca del suo presidente Giorgio Squinzi, ha messo il suo determinante timbro di approvazione sulla legge di stabilità, di fronte all’assemblea dei giovani imprenditori riunita a Capri. E non basta. In arrivo nuovi contratti e limitazione al diritto di sciopero.
Se tutto andrà secondo le previsioni, e dall’Unione Europea arriverà il via libera alla manovra economica di quest’anno, per le imprese è in arrivo una serie corposa di regali, pagati con altri tagli alla spesa pubblica e mettendo mano a un aumento del deficit: probabilmente si useranno i margini che Renzi ha trattato in Europa facendo pesare il carico sostenuto dall’Italia per l’emergenza migranti. Fra i tanti provvedimenti a favore delle imprese, l’eliminazione dell’IMU agricola, l’eliminazione della cosiddetta “tassa sugli imbullonati”, i grandi macchinari finora considerati come beni immobili, l’abbattimento dell’IRES (tassa sull’utile delle società di capitali e dei gruppi societari) di un buon 3,5% entro il 2017 (e se in Europa stanno zitti, l’abbattimento comincerà con un buon 2% fin dal prossimo gennaio), oltre a una serie di provvedimenti minori. Secondo i calcoli della Cgia di Mestre, “Ogni punto di riduzione dell’aliquota Ires consentirebbe alle società di capitali e ai grandi gruppi di pagare complessivamente 1,2 miliardi di euro in meno di tasse all’anno ” […] L’operazione si fonda sul buon andamento delle entrate fiscali, in crescita di oltre 5 miliardi nei primi 8 mesi dell’anno, trainate da Iva e Ires ma anche dall’Irpef, in particolare grazie alle ritenute da lavoro dipendente” (La Stampa, 6.10.15) Quindi sgravi finanziati anche con un ulteriore drenaggio di soldi, dalle tasche dei lavoratori a quelle delle imprese.
Confindustria può plaudire, come in effetti sta facendo, molto più che di fronte alle finanziarie berlusconiane. Tanto più che la gamma degli interventi governativi non finisce qui… Con un simile spirito di servizio dimostrato, Squinzi non vede l’ora di affidare al Governo l’intera partita sulle nuove regole per la contrattazione. Di fronte alla richiesta dei Sindacati di concludere il rinnovo dei contratti scaduti o in scadenza, prima di affrontare la modifica delle regole, Squinzi a fine settembre ha troncato ogni possibilità di trattativa, dichiarando che a questo punto sulla questione “in qualche modo potrebbe anche entrare il Governo” (La Stampa, 7.10.15).
A Confindustria piace vincere facile: Renzi si è detto subito pronto alla riforma dei contratti, con un intervento mai successo prima, e con una serie di “innovazioni” potenzialmente devastanti. Dal contratto collettivo nazionale di lavoro si passerebbe all’introduzione di un salario minimo legale di 6 euro lordi all’ora, poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali, per poi lasciare mano libera alle imprese spostando tutta la contrattazione sul livello aziendale, o al massimo territoriale.
Così secondo il Governo si aumenterebbe la produttività, storico problema del sistema produttivo italiano, agendo direttamente sullo sfruttamento intensivo. Eventuali aumenti di salario si misurerebbero solo in termini di maggiore sfruttamento, sempre ammesso che vengano corrisposti: in tempi di bassa inflazione, quando non di inflazione negativa, potrebbe darsi anche la possibilità della non-corresponsione degli aumenti concordati, pur in presenza di aumenti di produttività, qualora si verificasse un’inflazione inferiore a quella prevista. Già oggi gli industriali cominciano a chiedere indietro i soldi previsti dal contratto: è già successo con il contratto dei chimici, sta succedendo con il contratto dei metalmeccanici.
Di fronte a una stretta ulteriore, una possibile reazione della classe lavoratrice sarebbe ipotizzabile e soprattutto temibile. Quanto a questo, il Governo sta già correndo ai ripari. Si studiano le misure di controllo preventivo per possibili ondate di scioperi.
In Parlamento giacciono già due proposte di legge – della coppia Ichino/Sacconi, ovvero gli alleati di Governo Pd/Ncd), per limitare il diritto di sciopero, alla faccia della “Costituzione più bella del mondo”, che teoricamente ne farebbe un diritto individuale. Entrambi i disegni di legge prevedono il diritto alla proclamazione dello sciopero solo dai sindacati che rappresentano il 50% più uno dei lavoratori, chiaramente per evitare gli scioperi da parte di piccole sigle o magari da comitati di sciopero di fabbrica. In caso contrario, sarebbe necessario un referendum preventivo sullo sciopero, che solo in caso di esito favorevole (secondo la proposta di Ichino a maggioranza semplice del 50% più uno) consentirebbe l’esercizio del “diritto”.
Secondo il modello Sacconi, è necessario mettere quanto più possibile i bastoni tra le ruote dei lavoratori in sciopero. Ogni lavoratore dovrebbe dare dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero; per ogni sciopero revocato, dovrebbe essere richiesta una complessa procedura con un congruo anticipo, in modo da neutralizzare l’effetto “annuncio”; si propone lo sciopero”virtuale”, con il quale il lavoratore perderebbe il salario ma lavorerebbe lo stesso, devolvendo i soldi persi in un fondo la cui gestione rimane al momento oscura.
Da non dimenticare l’effetto Job Act sullo sciopero: un lavoratore che sciopera in teoria nell’immediato non può essere licenziato, perché scatterebbe la clausola discriminatoria e verrebbe reintegrato, ma di sicuro sarà rigorosamente attenzionato, e quanto prima si potrà licenziare senza motivi giustificati, liquidandolo con modesta spesa secondo i dettami del contratto a “tutele crescenti”. E anche qualora questo non avvenisse, non si potrà ignorare l’effetto deterrente preventivo sui lavoratori.
E’ sempre più chiaro cosa intenda il Governo cosiddetto “di sinistra” per riforme e modernizzazione: una marcia a braccetto con le imprese verso un sistema ottocentesco, e possibilmente anche peggio.
Aemme