All’inizio del mese di ottobre è stato pubblicato il 2° Rapporto sulle crisi aziendali a cura dell’Unità gestione vertenze, un organo del Ministero per lo sviluppo economico. Tanto per smentire l’ottimismo governativo, i cosiddetti “tavoli di crisi”, cioè le vertenze in corso al Ministero per lo Sviluppo economico, relative ad aziende che minacciano la chiusura di impianti, sono in aumento. Le aziende interessate e coinvolte nelle vertenze sono passate da 109 nel 2012 a 119 nel 2013 e 159 nel 2014. A fine primo semestre 2015 risultavano già 98 aziende.
Nel rapporto citato si parla di 24 accordi stipulati con direzioni aziendali, amministrazioni locali e sindacati che avrebbero consentito di salvare 20.000 posti di lavoro nel primo semestre 2015. È un trucco evidente. Si dice quanti posti di lavoro sono rimasti dopo gli accordi ma non si dice quanti erano prima delle crisi aziendali. I lavoratori coinvolti sanno benissimo come sono andate le cose. Spesso il numero degli operai e degli impiegati viene drasticamente ridotto e chi rimane deve sottostare a condizioni notevolmente peggiorate.
Altri dati sono interessanti e fanno riflettere. Con le parole del rapporto: “In particolare si segnala l’aumento delle aziende di medie dimensioni (dai151 ai 250 dipendenti), 26 tavoli rispetto ai 21 del semestre precedente”. In altre parole, quello che viene considerato il “turbocapitalismo”, il settore più dinamico del capitalismo industriale italiano, chiude, ristruttura e licenzia sempre di più. Non solo: “Si segnala la crescente presenza di aziende che svolgono attività di componentistica elettronica, passati da 8 a 11, e di chimica e petrolchimica, passati da 10 a 13. Si tratta di due settori a elevato contenuto tecnologico, sia di prodotto che di processo”.
Dunque il pericolo del licenziamento incombe sempre di più nei settori che tutti gli esperti ci indicano come le locomotive della “competitività”.
La cosa più importante però, e le inevitabili “slide” che accompagnano il breve rapporto ministeriale non possono fare a meno di evidenziarlo, è il carattere fittizio degli accordi stipulati. Vengono definiti elegantemente “limiti della metodologia utilizzata”. “Il processo non è cogente”, si dice, “gli impegni che le parti sottoscrivono non costituiscono un obbligo e il loro mancato rispetto fa semplicemente fallire il tentativo di salvataggio senza conseguenze di altro genere”.
Quindi le imprese possono in un primo tempo minacciare la chiusura di un impianto con il licenziamento di tutti i dipendenti, in seguito accettare di contrattare a un “tavolo di crisi”, dove si lamenteranno dei costi insostenibili del lavoro, delle imposte, ecc., quindi, sottoscrivendo un accordo che in realtà non le obbliga a niente, ottenere una riduzione del personale, un aumento dei carichi di lavoro per operaio, una riduzione dei salari e una quantità di incentivi economici di vario genere. Più o meno quello che sta già accadendo.