Nonostante che il NO al referendum avesse indicato la volontà di gran parte del popolo greco di rifiutare la politica d'austerità che ha ridotto negli ultimi cinque anni la Grecia in miseria, il governo Tsipras cede e accetta l'umiliante diktat di Bruxelles
Il governo greco torna a Bruxelles
Il braccio di ferro era finito di fatto a fine giugno con l'ultimatum delle istituzioni europee, il governo Tsipras dopo mesi di estenuanti trattative e un referendum che gli confermava il sostegno popolare, è dovuto a capo chino rimettersi a tavolino e confrontarsi con la "realtà", dove i rapporti di forza non si misurano a schede referendarie ma a miliardi di euro. Venerdì 10 luglio ha presentato un piano che è un arretramento rispetto a quello che ha invitato a rifiutare col referendum del 5 luglio. Il piano presentato dal nuovo ministro dell'economia Efklidis Tsakalotos (Iannis Varoufakis era stato allontanato subito dopo il referendum per attenuare gli attriti con l'ex troika e per evidenti dissidi col governo) prevedeva tagli, sacrifici e austerità, l'austerità che il SYRIZA ha promesso di combattere quando è andato al governo. Il piano, approvato nella notte fra il 10 e l'11 luglio, è stato votato da tutti i partiti meno che dal KKE (il partito comunista), Alba Dorata e da 17 deputati del SYRIZA (di questi 2 hanno votato no, 8 si sono astenuti e 7, fra cui l'ex ministro dell'economia Varoufakis, non si sono presentati in parlamento, fra chi non ha votato il piano anche due ministri).
Il diktat di Bruxelles
Dopo aver considerato le misure votate dal parlamento greco una "buona base di discussione" l'Unione Europea ha messo sul tavolo le sue misure per curare la "malattia greca". Sono misure durissime imposte in un modo che ricorda anche nella forma i rapporti fra i grandi e piccoli stati europei all'inizio del '900. Davanti a interessi che non riguardano solo il debito greco, ma il modo in cui deve procedere la politica economica dell'UE, la diplomazia perde il suo smalto ipocrita di perbenismo e diventa un gioco di voci grosse, ricatti, imposizioni. "Rimettere in riga la Grecia" diventa non solo un problema economico ma anche politico, un esempio di come si tratta con i paesi restii a non accettare pienamente le decisioni economiche dell'eurozona.
Il parlamento greco dovrà impegnarsi in tre giorni a varare una serie di misure come le privatizzazioni, la riforma pensionistica, la reintroduzione dei licenziamenti collettivi, l'aumento dell'Iva, la "depoliticizzazione" e la modernizzazione della pubblica amministrazione sotto il diretto controllo delle istituzioni europee, quest'ultima misura porterà a un forte taglio dei costi (e dei salari, anche se Tsipras continua a sostenere che salari e pensioni non verranno toccati) nel settore del pubblico impiego.
Vi sarà un pieno coinvolgimento del FMI nelle operazione di "salvataggio" e un controllo sul posto dell'attuazione delle riforme, cioè un ritorno delle Troika a tutti gli effetti. Altre misure da prendere sono la stesura di un nuovo codice di procedura civile, che va steso secondo l'accordo entro il 22 luglio, in solo nove giorni! La creazione di un fondo indipendente per le privatizzazioni, dove saranno trasferiti beni pubblici greci fino a 50 miliardi di euro. Il Fondo sarà basato in Grecia (il ministro tedesco dell'economia Schäuble voleva basarlo in Lussemburgo in mano a una società privata) sotto amministrazione greca, ma sarà controllato dalle autorità europee competenti. Il ricavato sarà utilizzato per rimborsare i nuovi prestiti, ricapitalizzare le banche greche, rimborsare il debito e, se avanzerà qualcosa per lo sviluppo. Insomma una pignoramento di 50 miliardi di euro di proprietà per cercare di rimborsare un debito considerato oramai da tutti insolvibile.
Le leggi varate nel paese dal 20 febbraio considerate "unilaterali", cioè in contrasto con lo spirito economico delle "riforme" indicate dall'UE, saranno sospese. Rimarranno in vigore i cosidetti provvedimenti umanitari, anche se non è dato di sapere quali provvedimenti saranno considerati tali. In cambio vi sarà a breve un prestito ponte per far ripartire le banche greche, ormai ridotte economicamente al lumicino, e per pagare le ultime scadenze non saldate per mancanza di liquidità. Ci saranno inoltre altri "aiuti", ma dopo che tutte le misure saranno attuate, per 86 miliardi di euro che finiranno nella loro grandissima parte a pagare prestiti e interessi sui prestiti precedenti.
La notte fra il 15 e 16 luglio il parlamento greco, mentre alcune migliaia di persone manifestavano in piazza Syntagma il loro dissenso e i lavoratori aderenti al sindacato del pubblico impiego ADEDY erano in sciopero, ha approvato le misure richieste da Bruxelles. Hanno votato a favore i partiti dell'opposizione "europeisti", PASOK, Nuova Democrazia e il nuovo partito centrista To Potami (Il Fiume), e partiti di governo, SYRIZA e Greci Indipendenti, contro il Partito Comunista e Alba Dorata. Forti contrasti ci sono stati all'interno del SYRIZA, 32 suoi parlamentari hanno votato no, 6 si sono astenuti e uno non si è presentato. Il quotidiano "Efimerida ton Syntakton", in genere molto benevolo verso il governo, parla di "vittoria di Pirro di Tsipras".
Non si sa quanto potrà reggere ancora il governo, sicuramente ha subito una dura sconfitta, ma ancor più dura l'ha subita il proletariato che pagherà tutte le conseguenze economiche varate ieri dal "primo governo di sinistra in Grecia".
Il referendum
La scelta di Tipras di sottoporre a referendum le proposte dell'ex troika, definite dal primo ministro greco un ultimatum, ha naturalmente messo in fibrillazione le cancellerie europee che si sono mobilitate, assieme all'opposizione interna greca, prima per impedire il referendum e poi per far vincere il sì. Questa aperta, esplicita, arrogante scelta di campo, gli interventi come quello del socialdemocratico Martin Schultz (presidente del parlamento europeo, quindi con un ruolo "super partes") che si era dichiarato disponibile a venire ad Atene ad appoggiare il sì, non ha fatto altro che innalzare l'orgoglio nazionale che si è espresso nel referendum in una valanga di no.
Sono stati resuscitati anche alcuni vecchi ciarpami come il socialista Kostas Simitis, primo ministro quando la Grecia è entrata nell'euro "truccando" i bilanci, o Kostas Karamanlis primo ministro di Nea Democratia negli anni che hanno portato il paese al disastro economico, o Iorgos Papandreou, socialista, diventato primo ministro nell'autunno del 2009, un mese prima del fallimento della Grecia, dopo una campagna elettorale al grido "i soldi ci sono!!": Ma tutto questo non è servito a spostare verso il sì la scelta dei greci. E non è neppure servita la campagna per il sì incessante, ossessiva, sfrontata, da fare impallidire le TV berlusconiane, delle TV private. Da ricordare che il governo greco aveva per la prima volta costretto le TV private greche a versare milioni di arretrati di diritti di utilizzo dell'etere mai pagati fino a quel momento. Neanche il blocco monetario, partito con la sospensione dell'ELA (la fornitura della liquidità di emergenza alle banche) il 30 giugno, e la conseguente crisi di liquidità per le banche che ha prodotto le file della gente davanti ai bancomat, ha inciso a favore del sì. Molti probabilmente hanno votato no poiché hanno percepito la chiusura forzata delle banche come un ricatto economico, un'umiliazione all'orgoglio nazionale.
E per finire anche l'invito a votare sì della GSEE, la Confederazione Generale degli Operai di Grecia, la più grande confederazione sindacale, che negli ultimi mesi con tutti i problemi che hanno i lavoratori greci si è fatta sentire solo per appoggiare il fronte del sì, non ha avuto successo.
Il no, ha vinto, con il 61,3% dei voti, in nessuna prefettura della Grecia è stato superato dal sì, le analisi del voto scorporato ci dicono per esempio che oltre l'85% dei giovani fra i 18 e 24 anni hanno votato no. Una vittoria schiacciante, ma va aggiunto anche che alle urne si sono recati il 62,5% dei greci, qualcosa meno dell'ultima campagna elettorale
I rapporti di forza
Un referendum, può essere interpretato come uno strumento che misura lo stato d'animo della popolazione, ma non può certo misurare i reali rapporti di forza fra le classi. Non si può pensare che abbiano votato "no" solo i lavoratori. Hanno sponsorizzato il "no" anche forze, borghesi e piccolo borghesi, che considerano che il problema sia l'euro, l'intransigenza dell'EU o della Germania, mentre il problema è il grande capitale, compreso quello greco. Ci sia il dominio dell'euro o ci sia il dominio delle dracma i lavoratori greci rimarranno comunque sotto il giogo del capitale.
È inoltre prevedibile che un improvviso passaggio alla dracma possa indebolire ancor di più, almeno per un medio periodo, il capitalismo greco e questi scaricherà la sua debolezza sui lavoratori, come d'altra parte sta facendo ora per mantenere la sua appartenenza all'area dell'euro.
Per i lavoratori greci il problema non è fra euro o dracma o fra lo "stare" o no in Europa: il problema è di rifiutare il mito di un "Europa della solidarietà, della dignità, del rispetto", mito profuso a piene mani dal SYRIZA come da altre organizzazioni della sinistra europea e di ritornare a una visione di classe, internazionalista.
Un 'Europa della solidarietà della dignità e del rispetto potrà esserci solo quando il continente si sarà liberato dalle catene del capitalismo. Per raggiungere questo obbiettivo è necessario costruire un'avanguardia di classe non solo in Grecia ma in tutto il continente, che unifichi e amplifichi e stimoli le lotte operaie contro un padronato che ha scelto di esercitare a livello continentale la sua dittatura di classe tramite gli accordi di 28 stati capitalisti spesso in concorrenza e contrasto fra di loro. Un percorso lungo difficile e tortuoso, ma non c'è altra scelta, nessun referendum vittorioso, nessuna vittoria elettorale, anche a maggioranza schiacciante, potrà sostituirsi a un proletariato forte cosciente e organizzato. I fatti che si stanno svolgendo ora sotto i nostri occhi ne sono la palese conferma.
Corrispondenza da Atene