I media danno letteralmente i numeri: ogni giorno veniamo subissati dai dati sull’occupazione. Se oggi esultano per lo strabiliante incremento dei contratti a tempo indeterminato, domani assistiamo alla smentita, perché un qualsiasi istituto di studio statistico si incarica di riportare sotto gli occhi di tutti la concretezza dei dati sulla disoccupazione
In vista delle elezioni regionali di fine maggio e dell’avanzata delle avanguardie populiste alla Salvini, gente che non si fa certo scrupolo di cavalcare qualsiasi forma di disagio - anche raccontando balle palesi perfino a prima vista – il Governo ha dovuto concentrarsi nella ricerca del consenso. Non che al Governo stesso faccia difetto la stessa capacità attribuita a Salvini, anzi; di diverso c’è però il fatto che, dovendo far digerire alla popolazione non solo le sue promesse taroccate, ma anche i suoi provvedimenti concreti, di fatto si trova svantaggiato. Così, ancora prima che il tristemente famoso Jobs Act entrasse in vigore, ne magnificava le doti salvifiche attribuendo al provvedimento legislativo gli effetti di aumento dei contratti a tempo indeterminato avvenuti a gennaio e febbraio: appunto, ben prima del 7 marzo, data di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dei decreti attuativi del Jobs Act. Ma il libro dei sogni si è chiuso ancora prima di aprirsi, visto che i dati forniti dall’ISTAT a maggio sulla disoccupazione del mese di marzo dimostrano che questa continua imperterrita a crescere, incurante degli annunci governativi, raggiungendo il 13,2%, il livello più alto dal novembre scorso. Quanto alla disoccupazione giovanile, cresce anch’essa purtroppo, arrivando al 43,1%, 0,3 punti in più rispetto a febbraio. In numeri assoluti, il numero dei disoccupati ha subito un aumento di circa 52.000 unità.
Ma – ci raccontano – i contratti a tempo indeterminato nei primi tre mesi dell’anno sono cresciuti del 24% rispetto allo stesso periodo del 2014.
In realtà, l’aumento dei contratti a tempo indeterminato è frutto di un combinato-disposto, dovuto innanzi tutto alla nuova normativa che regola le assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato decorrenti dal 1° gennaio al 31 dicembre 2015: per queste assunzioni è previsto l'esonero totale dai contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (esclusi quelli INAIL), per un periodo massimo di 36 mesi e un importo massimo pari a 8.060 euro annui, applicabile solo ai datori di lavoro privati, con esclusione dei contratti di apprendistato e di lavoro domestico, ed inclusi i lavori agricoli (con alcune limitazioni). Tuttavia, anche per i contratti di apprendistato le imprese godono di agevolazioni contributive (aliquota ridotta al 10%) che vengono mantenute, in caso di trasformazione in contratto a tempo indeterminato al termine del periodo di apprendistato, ancora per un anno. Inoltre per i contratti di apprendistato stipulati tra il 1° gennaio 2012 e il 31 dicembre 2016, alle imprese che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a nove è concesso uno sgravio contributivo del 100% nei primi tre anni di contratto. Ma tutto ciò non sarebbe ancora bastato per gli appetiti delle imprese, se la normativa del Jobs Act non avesse fatto il resto, trasformando il contratto a tempo indeterminato in un contratto precario di fatto, rescindibile in ogni momento con una modica spesa - già ammortizzata del resto con gli sgravi. E ora cosa dovrebbe fare un’impresa, assumere a tempo determinato quando riceve in omaggio un sacco di soldi per assumere a tempo indeterminato, tale d’altronde solo di nome?
Al di là della cortina fumogena, una volta che la classe lavoratrice è stata costretta a digerire anche la demolizione dello Statuto dei Lavoratori, la stampa borghese può ammettere che il nuovo contratto stipulabile da marzo “è nominalmente un contratto a tempo indeterminato, ma è accompagnato da norme che rendono più facili i licenziamenti rispetto ai vecchi contratti tutelati dall’art. 18. E quindi, come ha osservato lo stesso ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, saranno i fatti a dirci se e quanto questo tipo di rapporti di lavoro saranno stabili e considerati tali dagli operatori economici, prime fra tutti le banche, per esempio nella concessione dei mutui” (Corriere della Sera, 12.5.15). Come dire che il Governo potrà abbindolare tutti, ma le Banche no di certo. E i lavoratori non si facciano illusioni: avranno voglia a sventolare i loro contratti “a tutele crescenti”; le Banche vorranno garanzie, mica discorsi. Viva la franchezza, finalmente.
Per finire, vogliamo vedere quanto costa all’Erario questo gioco delle tre carte a favore delle imprese? Qualora il Governo intendesse rendere strutturali gli sgravi contributivi, ci vorrebbero “5 miliardi l’anno. Ma nemmeno ciò basterebbe a far salire stabilmente l’occupazione. Un risultato che dipende soprattutto dalla crescita della produzione in risposta alla domanda interna ed internazionale” (Corriere della Sera del 12.5.15) Casualmente, la stessa cifra che sembrerebbe necessaria ogni anno per la rivalutazione delle pensioni, bloccate dal provvedimento introdotto dal Governo Monti e bocciato dalla Corte Costituzionale; anzi, non proprio la stessa, di più. Perché la rivalutazione delle pensioni tornerebbe in parte indietro allo Stato, sotto forma di tasse. Per le imprese, invece, si tratta di entrate pulite.
Ma l’ipotesi di restituire il maltolto ai pensionati è stata accolta da un coro di lamentazioni sugli effetti disastrosi che avrebbe sul Bilancio dello Stato, e dalla compunta dichiarazione del sottosegretario Zanetti: “impensabile” l’ipotesi di restituire a tutti l’indicizzazione delle pensioni… “Il rimborso per quelle più alte sarebbe immorale e il governo deve dirlo forte. Occorre farlo per le fasce più basse”. (La Stampa, 6.5.15). Staremo a vedere se il Governo riterrà altrettanto immorale regalarli alle imprese…