9 milioni senza contratto

Che la tendenza sia a relegare la contrattazione a livello aziendale, al massimo territoriale; oppure che semplicemente si stia tentando di comprimere ancora la tenuta della massa salariale: fatto sta che in Italia il potere d’acquisto dei salari e la capacità di spesa dei lavoratori si riducono ancora, anche per il mancato rinnovo dei contratti nazionali di lavoro.


Come se non bastasse la crisi e il livello stabilmente altissimo della disoccupazione, proprio il pretesto della crisi è il nuovo grimaldello per incidere in modo deciso sul livello di vita della classe operaia. Non è un caso che siano in attesa di rinnovo i contratti di alcune fra le categorie più importanti, e i numeri di coloro che non vedono aumentare da anni il proprio salario aumenta con il passare dei mesi.

A inizio 2015, sono 9 milioni i lavoratori che non hanno visto rinnovare il contratto, e di questi circa 5 appartengono al settore del terziario: turismo, commercio, farmacie. Una categoria estremamente variegata, che interessa i dipendenti di imprese anche grandi, ma soprattutto piccole e piccolissime; un settore dove, proprio per le sue caratteristiche, precarietà e sfruttamento sono all’ordine del giorno, anche nelle forme del lavoro “grigio”, parzialmente assicurato, stagionale e occasionale. Una categoria di difficile organizzazione, proprio perché molto frammentata, dove la crisi è particolarmente dura, proprio per il crollo dei consumi interni.

Per altri 300.000 lavoratori, i dipendenti degli istituti bancari, il contratto ancora vigente è stato addirittura disdettato unilateralmente dalla loro controparte, che lo disapplicherà a partire dal 1 aprile. Questa categoria, che ha subito un costante “snellimento” di organici e filiali, accelerato dal 2012 ad oggi, ha dato vita a fine gennaio a uno sciopero molto partecipato, con manifestazioni in quattro città. L’adesione è stata molto alta, intorno al 90%, e ha visto chiusi il 95% degli sportelli. Nonostante un insulso slogan sindacale proclamasse “sono bancario al servizio del Paese”, i bancari più che di servire sono sembrati preoccupati dagli ulteriori tagli che si preparano e dalle divergenze tra i loro stipendi – fermi da 15 anni e in calo di 800 euro in questo periodo, secondo la Fisac – e le cifre che nello stesso tempo sono lievitate nelle tasche dei banchieri, che invece hanno allargato i loro proventi di 600.000 euro.

Per i dipendenti pubblici il contratto ormai è un miraggio da più di sei anni. Anzi, nei loro confronti lo Stato e le Amministrazioni locali realizzano da tempo i loro maggiori risparmi, operando tagli su tagli e non solo colpendo i salari, ma bloccando le assunzioni. L’obiettivo è chiedere sempre di più ai lavoratori, ovviamente pagandoli sempre di meno. In un settore nel quale si va in pensione sempre più tardi (la componente femminile del Pubblico Impiego già da ora può andare in pensione solo avendo compiuto 65 anni), e in cui le assunzioni sono a dir poco rarefatte, a quanto pare la preoccupazione che sembra affliggere maggiormente gli ambienti governativi riguarda le modalità da applicare al Pubblico Impiego per facilitare i licenziamenti. In questo senso ci si è portati già avanti con il lavoro, essendo le scarse assunzioni in larga misura precarie, e spesso non rinnovate. Ma chiaramente non basta; per ora ci si è limitati a escludere il Pubblico Impiego dalle norme previste dal Job Act, solo perché gli eventuali indennizzi avrebbero gravato di spese lo Stato. Tuttavia è probabile che norme più “avanzate” sui licenziamenti potrebbero essere proposte se mai i contratti pubblici venissero rinnovati. In teoria per rinnovare i contratti ci vorrebbero i soldi, e in questo senso la legge di stabilità non prevede risorse: discutere di contratti senza soldi non avrebbe senso, perché comporterebbe solo arretramenti. Però non ci sarebbe da stupirsi troppo se venisse proposto un qualsiasi tavolo a costo zero, e qualche sindacato compiacente abboccasse: sarebbe il sogno di qualsiasi Amministrazione - poter abbattere una volta per tutte i diritti, senza tirar fuori un centesimo.

C’è già un contratto con il quale le imprese vorrebbero fare da battistrada: il contratto dei chimici, che pur riguardando un numero relativamente basso di lavoratori (180.000), è stato spesso un punto di partenza preso a modello, contratti pubblici compresi. Nonostante fosse partita per tempo (il contratto dei chimici scade a fine 2015), la vertenza dei chimici si è bloccata. Il perché solo qualche anno fa sarebbe parso un paradosso: secondo le imprese, già gli aumenti previsti con il contratto 2013-2015, un totale di 148 euro, di cui finora 86 pagati, 62 da pagare, sarebbero troppi rispetto all’andamento dell’inflazione. L’appiglio si trova nell’art. 69 ultimo comma del ccnl chimico-farmaceutico, secondo il quale entro i primi tre mesi del terzo anno di vigenza del contratto le parti si incontrano per verificare gli scostamenti tra inflazione prevista e reale. Finora la norma avrebbe dovuto essere una garanzia per i salari, ma oggi - secondo le imprese - i lavoratori avrebbero già preso 34 euro più del dovuto, e 45 in più ne dovrebbero prendere. Totale: 79 euro in più… da restituire. Federchimica e Federindustria sottolineano il concetto in un comunicato congiunto, dichiarando che la situazione “richiede quindi la necessità di impegnarsi per individuare tempestivamente soluzioni anche innovative ma rispettose delle disposizioni normative e contrattuali vigenti”.

Per anni i lavoratori hanno dovuto conquistarsi con gli scioperi gli adeguamenti dovuti per scostamento tra inflazione programmata e reale; oggi i padroni hanno la spudoratezza di chiedere “tempestivamente” soluzioni “innovative” per comprimere ancora i salari. E’ una tendenza che è urgente fermare.

Aemme