La schiavitù esiste ancora. E non soltanto nel significato più largo del termine. Non soltanto nel senso che le condizioni di lavoro e di vita di centinaia di milioni di lavoratori in tutto il mondo somigliano a quelle degli schiavi di altri tempi.
Esistono persone, oggi, nel ventunesimo secolo, che vengono vendute e comprate come qualsiasi altra mercanzia. La “Società contro la Schiavitù”, fondata in Inghilterra nel 1839, non è mai restata, in questi 175 anni, senza materia di cui occuparsi.
Secondo l'organizzazione non governativa Free Walk, gli schiavi nel mondo sono sicuramente almeno trenta milioni. In gran parte in Asia. Solo in India ce ne sono 14 milioni.
Qualche settimana addietro, un'inchiesta del quotidiano britannico The Guardian ha gettato un fascio di luce su questo mondo di mostruosa oppressione. L'indagine del noto giornale è durata sei mesi ed ha documentato, con un lavoro scrupoloso, l'uso di manodopera schiava in Thailandia.
La thailandese Charoen Pokphand Foods (CPF), la più grande produttrice mondiale di gamberetti, è stata inchiodata alle sue responsabilità dall'inchiesta del Guardian. Con lei le sue imprese fornitrici che impiegano schiavi. Si tratta di immigrati provenienti dalla Birmania, dalla Cambogia o da altri paesi dell'Asia, costretti a lavorare anche venti ore di seguito a bordo dei pescherecci sui quali vengono segregati. Nel ciclo dell'allevamento dei gamberetti, i pescatori devono fornire grandi quantità di pescato che ha il solo utilizzo di mangime per i crostacei.
Le condizioni bestiali degli schiavi, arruolati con l'inganno da intermediari che hanno loro promesso, dietro pagamento di alcune centinaia di euro, di trovare loro un impiego regolare in Thailandia, sono state rese note da alcuni di loro riusciti a fuggire. Oltre agli orari disumani e alla segregazione, questi uomini subiscono percosse e a volte vengono uccisi. È noto anche il prezzo di questa merce umana: 250 sterline per schiavo, circa 300 euro. Tanto vale la loro pelle.
La CPF fattura 33 milardi di dollari l'anno! I suoi portavoce hanno subito scaricato le responsabilità sulla catena dei fornitori e dei sub-fornitori. Ma la “catena” è appunto una catena nella quale ogni anello si tiene con l'altro. E la catena della produzione e della commercializzazione dei gamberetti thailandesi comincia con la vita disperata degli schiavi pescatori e finisce sugli scaffali di Wal-Mart, Carrefour e di molti grandi gruppi della distribuzione in tutti i paesi “civili” Italia compresa.
La schiavitù fu una delle premesse economiche per l'accumulazione originaria del capitalismo. Ma i peccati originali di questo sistema, che abbraccia ormai tutto il mondo, non sono mai stati completamente liquidati.
Il volto del capitalismo che nei paesi più sviluppati cerca di mostrarsi simpatico, umano e accattivante, si mostra in tutta la sua mostruosità in altre parti del mondo. La catena dei legami economici non si limita certo solo all'industria dei gamberetti. Gli schiavi del ventunesimo secolo non sono una sopravvivenza del passato ma una ruota necessaria al meccanismo gigantesco, cieco e inumano dell'accumulazione capitalistica.
R.Corsini