Se qualcuno può parlare di ripresa (o meglio, di “ripresina”) non può parlare a nome della classe operaia. L’ultimo trimestre del 2013 ha visto una pallida crescita dell’economia dello 0,1%. Ma se qualcosa aumenterà, saranno i profitti e le rendite finanziarie. La classe operaia paga ancora un anno di disoccupazione, lavori precari e bassi salari
L’anno appena passato ha segnato in Italia una serie di risultati negativi, che hanno raggiunto quasi sempre i record storici, a partire dalle serie paragonabili rilevate dall’ISTAT. Se poi vogliamo verificare il risultato ottenuto con l’inasprimento dello sfruttamento, contrabbandato con la formula “per il bene del Paese”, possiamo osservare che le finanze dello Stato non migliorano, anzi continuano a mostrare falle sempre più evidenti. Il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo sale al 132,6%, in crescita di 5 punti percentuali, il più alto dal 1990; questo non significa che prima del 1990 fosse ancora più alto, ma semplicemente che dal 1990 hanno avuto inizio i rilevamenti e le comparazioni tra valori confrontabili. Le uscite dello Stato sono calate, principalmente tagliando i servizi alla popolazione e i salari dei lavoratori del pubblico impiego: confermato il blocco dei loro contratti per il quinto anno consecutivo, la riduzione del 10% delle ore di straordinario, il blocco delle assunzioni (possibili solo per il 20% dei pensionamenti), il raddoppio dei tempi previsti per incassare la liquidazione. In tutto un altro miliardo e mezzo di euro che le 31 categorie lavoratori pubblici (dalle Amministrazioni locali, alla Scuola, alla Sanità, alla Pubblica Sicurezza) hanno visto scomparire nel buco nero del debito statale. Negli ultimi tre anni la cosiddetta spending review è costata ai dipendenti 7 miliardi di euro, e altri 7 presumibilmente ne costerà, se dal 2015 – anno in cui potranno essere riprese le trattative – al 2017 non sarà corrisposto altro che l’indennità di vacanza contrattuale. Il tutto, a quanto pare, con l’unico risultato di abbattere brutalmente i redditi dei lavoratori, ma non il debito pubblico. Nonostante i tagli, i sacrifici, le tasse, etc., il debito pubblico non accenna a diminuire, anzi aumenta.
In compenso – tanto per valutare la consistenza della famosa luce in fondo al tunnel - nel 2013 il PIL è diminuito dell’1,9%, un dato peggiore dell’ultima stima ufficiale del Governo, che prevedeva un calo dell’1,7%. Lo 0,1% in più dell’ultimo trimestre non fa molto testo.
DISOCCUPAZIONE IN CRESCITA
Cala la produzione e aumenta la disoccupazione. In cinque anni si è verificata al rovescio la promessa di un milione di posti di lavoro che a suo tempo l’ex premier Berlusconi aveva millantato. Sono un milione infatti i posti di lavoro persi in cinque anni, 478.000 solo nel 2013 rispetto al 2012. Il tasso di disoccupazione a gennaio 2014 è balzato al 12,95%, quello giovanile al 42,4%, entrambi al tasso più alto sia dall’inizio delle rilevazioni trimestrali, nel 1977, sia di quelle mensili, nel 2004. A febbraio è arrivato fino al 13%. L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (un anno o più) sale dal 52,5% del 2012 al 56,4% del 2013. Il numero delle assunzioni è arrivato addirittura a un segno meno del 30%, in riferimento al periodo precedente il 2008, anno della crisi finanziaria; una cifra che un rapporto della Commissione Europea sostiene essere peggiore perfino di quella della Grecia, e migliore solo di Spagna e Slovenia. Inoltre, l’Italia è il Paese in cui è più difficile trovare lavoro dopo averlo perso: le probabilità sono del 14-15% entro un anno (Rapporto della Commissione Europea).
Il numero degli “scoraggiati”, coloro che vorrebbero avere un’occupazione ma per vari motivi non la cercano nemmeno più, supera i 3 milioni. In Italia solo 6 adulti su 10 hanno un lavoro. Su un totale di circa 3.300.000 disoccupati - un dato drammaticamente in crescita del 9% rispetto allo scorso anno - i giovani in cerca di lavoro tra i 15 e i 24 anni sono 690.00. Ma i giovani inattivi tra i 15 e i 34 anni, cioè ragazzi che non studiano né lavorano, sono quasi 4 milioni, circa il 27% del totale, un patrimonio immenso di energie nuove e di competenze letteralmente gettato al macero. Le immatricolazioni universitarie sono in calo costante, circa 30.000 in meno in tre anni. Oltre all’incremento delle tasse universitarie e alla diminuzione dei sussidi agli studenti meno abbienti, la scarsa efficacia della laurea nella ricerca di un posto di lavoro dissuade soprattutto le famiglie a basso reddito a investire negli studi.
SI ALLARGA L’AREA DELLA POVERTA’, AUMENTA LA CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA
Calano i redditi per tutte le categorie di lavoratori. Come sempre in ritardo di un anno, i dati ISTAT registrano tra il 2010 e il 2012 una diminuzione del reddito da lavoro dipendente ricevuto in media da ciascun lavoratore del 2%. D’altronde aumenta la concentrazione della ricchezza: la consistenza del patrimonio del 10% di famiglie più ricche, che nel 2010 possedeva il 45,7% della ricchezza totale, oggi arriva al 46,6%, questa sì in netto aumento.
Tutto ciò mentre anche la povertà aumenta nello stesso periodo dal 14% al 16%, e il reddito delle famiglie, considerate senza distinzioni di classe, diminuisce del 7,3%, riducendosi in particolare per i gruppi sociali più giovani. La metà delle famiglie ha un reddito inferiore a 2.000 euro al mese, il 20% sotto 1.200 euro al mese, l’altra metà un reddito superiore a 2.000 euro al mese. Più di una famiglia su quattro ha almeno un debito. L’Italia è il Paese che ha conosciuto dal 2008 il declino più elevato della situazione sociale di chi lavora: oltre il 12% degli occupati non riesce a vivere del suo stipendio. In questa indecorosa classifica, l’Italia occupa il terzo posto in Europa, dopo la Romania e la Grecia, e - quanto al rischio di povertà assoluta ed esclusione sociale – è fra i Paesi che hanno visto crescere di circa il 60% in cinque anni le persone in difficoltà, una percentuale paragonabile solo a Grecia e Irlanda. E’ a rischio povertà un italiano su tre.
CONSUMI IN CALO
I consumi scendono nettamente. Se la percentuale di chi non arriva al fatidico fine mese raggiunge il 30,8%, mentre il 51,8% ci riesce ricorrendo ai propri risparmi, non può che diventare evidente il crollo nell’acquisto dei beni, anche quelli di prima necessità. Nel primo semestre 2013, secondo l’ISTAT, il 17% delle famiglie dichiara di avere diminuito la quantità di generi alimentari acquistati e di aver scelto prodotti di minore qualità, 1,6% in più rispetto allo stesso periodo del 2012, raggiungendo la quota di un incredibile 65% rispetto al totale, addirittura il 77% nel Sud. Sono sempre di più gli individui in condizioni di “severa deprivazione”, che raggiungono il 14,5%, mentre il 21,2% non riesce a riscaldare la propria abitazione, il 42,5% non riesce ad affrontare spese impreviste di 800 euro, e il 16,8% praticamente elimina la carne dalla propria dieta , visto che non riesce a mangiare un pasto proteico adeguato ogni due giorni. Sono oltre 4 milioni le persone costrette a chiedere aiuti alimentari, di cui più di 400.000 sono i bambini con meno di cinque anni e quasi 600.000 gli anziani sopra i 65 anni. Gli acquisti alimentari scendono del 4%, e aumentano quelli di materie prime come farina, zucchero, uova rispetto a quelli di prodotti preparati.
RINUNCIARE A CURARSI
Secondo un’indagine promossa da UniSalute, compagnia del gruppo Unipol che si occupa di assicurazioni sulla salute, sono sempre di più coloro che rinunciano a curarsi per problemi economici, e la percentuale sul totale raggiungerebbe addirittura il 57%. La Fondazione Banco Farmaceutico, un’organizzazione caritatevole che si occupa di assistenza sanitaria, denuncia che nelle famiglie più povere si spendono per la salute 16,34 euro al mese, rispetto alla media di 92,45 euro, e negli ultimi anni sono aumentate le richieste di distribuzione gratuita dei farmaci, anche i più essenziali come analgesici e antinfiammatori A curarsi con le medicine della carità sono sempre più gli italiani, che negli ultimi due anni sono diventati la maggioranza (il 57%) rispetto agli stranieri; il 35% è minorenne.
IL FUTURO CHE CI ASPETTA
Più o meno una famiglia su tre è costretta a vivere contando sulle risorse delle generazioni precedenti. La pensione degli anziani costituisce in molti casi l’unico reddito certo delle famiglie, il 93% delle persone – secondo un sondaggio promosso da Coldiretti – ritiene la presenza di un pensionato in famiglia “una vera e propria fortuna”.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), il tasso dei senza lavoro è destinato a crescere in Italia anche nei prossimi anni, sicuramente un’ulteriore contrazione è prevista nei prossimi due. L’Osservatorio internazionale rileva come le politiche di austerità (“i compiti a casa”) utilizzate per rimettere a posto i conti pubblici non solo hanno depresso la domanda, aumentando la disoccupazione, ma hanno avuto come unico risultato l’aumento – e non la diminuzione – del debito pubblico. Ciò premesso, non esiste il benché minimo accenno di un cambio di direzione. La riforma del mercato del Lavoro, che Confindustria chiede a gran voce, e che il neo-Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato con l’esotico nome di “job act”, insiste nello smantellamento delle tutele esistenti sul lavoro e nella preparazione dei disastri futuri.
L’unico futuro possibile per la classe operaia sta nella ripresa delle lotte.