Commentando l’operazione di acquisto del 42% delle azioni Chrysler possedute dal fondo pensionistico del sindacato dei lavoratori dell’automobile americano, dopo una estenuante trattativa, tutta o quasi la stampa italiana ha ritrovato i toni esaltati del 2009, quando Marchionne prometteva un piano di investimenti da 20 miliardi e una produzione di 1,4 milioni di auto. Sull’altare di queste promesse furono sacrificate le condizioni di lavoro negli stabilimenti del gruppo Fiat e fu di fatto espulsa la Fiom e i sindacati “non collaborativi” dalle relazioni industriali. Il risultato concreto è stata la generalizzazione della cassa integrazione, la chiusura di impianti come Termini Imerese, la riduzione del volume produttivo a 400mila auto l’anno.
Oggi come quattro anni fa si sprecano le parole di elogio e si fa mostra di un incomprensibile “orgoglio nazionale” per l’astuzia e le capacità negoziatorie di uno strapagato manager che è in realtà cittadino svizzero-canadese. Per trovare un po’ più di lucidità bisogna scorrere le pagine della stampa americana specializzata. Il Wall Street Journal, ad esempio avverte che si tratta di “un gioco di prestigio che non risolve tutti i problemi”.
Quella condotta dal “mago della finanza” Marchionne è stata un’operazione che ha consentito, secondo le parole di Paolo Fresco, presidente del gruppo, di conquistare una grande azienda americana “senza che fosse minimamente eroso il controllo della famiglia Agnelli sulla catena di comando”. Si vedrà nei prossimi mesi chi ha conquistato chi. Comunque si può capire che i giochi di prestigio finanziari entusiasmino certi ambienti della grande borghesia italiana. Tutto un mondo di giornalisti, abituati a strisciare ai piedi dei potenti, non fa che abbellire le imprese di Mandrake-Marchionne.
A chi gli ricorda che tutta l’operazione ha come risultato sicuro, per ora, solamente l’arricchimento della famiglia Agnelli e degli azionisti della finanziaria di famiglia, Marchionne risponde che sono in preparazione nuovi modelli e il rilancio del marchio Alfa Romeo. Giustamente, il segretario della Fiom, Landini, ha detto in una intervista alla Repubblica che, anche se fosse vero, per lanciare un nuovo modello ci vogliono dai 18 ai 24 mesi. Altri due anni di cassa integrazione, dunque.
Milano Finanza ha fatto il confronto fra i dati economici di dieci anni fa del gruppo Fiat e quelli del nuovo aggregato Fiat-Chrysler. Ovvio che tutte le cifre abbiano il segno positivo. Ma, ricordiamolo ancora, si tratta di un’operazione puramente finanziaria e non della crescita complessiva, in America come in Italia, di impianti e posti di lavoro. Tanto al di là quanto al di qua dell’Atlantico, infatti, sono stati chiuse fabbriche e si sono licenziati migliaia di operai dal 2003 a oggi.
Ma fra i dati che circolano nei giornali economici ce n’è uno che dovrebbe attirare l’attenzione dei lavoratori Fiat. Questo nuovo colosso dell’auto, il settimo nella classifica mondiale, ha oggi 215 mila dipendenti. Una massa importante di forza-lavoro che dipende da un’unica organizzazione aziendale. Sia Marchionne che gli altri esponenti della direzione del gruppo non fanno che insistere sulla necessità di armonizzare le condizioni di lavoro dei vari stabilimenti ai migliori standard. Inutile dire che il loro concetto di “migliore” non è quello degli operai. Ma resta il fatto che la direzione della Fiat-Crysler cerca e cercherà sempre di più di attuare un suo “internazionalismo operaio” alla rovescia, mettendo cioè in discussione i regimi di orario e di salario migliori di un determinato paese, facendo leva su quelli peggiori di un altro.
Su questo terreno, l’iniziativa non può essere lasciata ai Marchionne, agli Elkann, ai Paolo Fresco o ai loro omologhi americani. La strada di un fronte comune fra dipendenti Fiat-Chrysler dei diversi paesi è ormai obbligata.