Prime delle elezioni dello scorso febbraio il Presidente della BCE Mario Draghi dichiarava che l’Italia avrebbe proseguito sulla strada delle riforme indipendentemente dall’esito elettorale, e sottolineava che il processo delle riforme sarebbe continuato “come se fosse stato inserito il pilota automatico”. La legge di stabilità 2013 lo conferma.
I Sindacati confederali sono stati definiti “precipitosi” dal premier Letta perché, dopo una ponderosa e ponderata riflessione sulla nuova legge finanziaria, avrebbero deciso per la mobilitazione, magari con comodo, nel prossimo mese di novembre, dopo che è stata definitivamente approvata, e per le 4 ore di rito, tanto per non far dimenticare che ci sono anche loro.
Pensare di far pendere la bilancia della spesa pubblica un po’ di più a favore dei lavoratori con quattro ore di sciopero, con questi chiari di luna, è un’invenzione a cui non credono più nemmeno i fedelissimi di Camusso e soci – ammesso che di fedelissimi ce ne siano ancora.
Del resto, se c’è qualcosa che la legge di stabilità 2013 stabilizza veramente è lo stato di estremo disagio dei lavoratori e della popolazione povera. Le beghe tra i Partiti hanno già consentito l’aumento automatico di un punto dell’IVA, che – come era prevedibile – penalizza molto di più i redditi bassi, che vedono ancora di più assottigliarsi il loro potere d’acquisto. Quindi, dopo avere assicurato ai possessori di patrimoni che le loro prime case di pregio non verranno tassate, e dopo aver eliminato perfino la tassa sulle imbarcazioni di lusso che aveva istituito la precedente legislatura – una finezza che Governo e media hanno divulgato poco, una tassa di scarse entrate ma almeno con un valore simbolico – il Governo Letta delle larghe intese si è dedicato alla nuova finanziaria.
La cifra propagandistica è stata tutta incentrata sull’affermazione che finalmente, dopo anni di rigore, il nuovo Bilancio dello Stato si sarebbe realizzato senza nuove tasse, e anzi con l’iniezione di risorse per “imprese e lavoratori”, ormai evidentemente accomunati in un unico blocco sociale, come se i loro interessi fossero immediatamente coincidenti.
La notizia è che ovviamente le nuove tasse ci sono, e che tra Trise, Tasi, Tari, non si tratta solo di uno scioglilingua. La Trise definisce elegantemente l’unione di due tasse, Tari e Tasi. La Tari prende il posto della Tares, durata il tempo di un anno, ma che era già riuscita a dilatare le spese delle famiglie per la raccolta di rifiuti: il nuovo tributo non promette di diminuirle. Se l’IMU per la prima casa sembra ormai al tramonto, tanto era invisa a chi possedeva immobili di valore, non è che chi si era comprato con tanta fatica due stanze e magari paga ancora il mutuo può gioirne; del resto non ci sono buone notizie nemmeno per chi non ha nemmeno quelle due stanze e paga l’affitto. La nuova Tasi infatti è una nuova tassa sui servizi “indivisibili” dei Comuni; sarà basata ancora sugli immobili, ma per la prima volta non la pagheranno solo i possessori, toccherà anche gli inquilini.
L’altra notizia è che la famosa riduzione del cuneo fiscale per “imprese e lavoratori” avrà un impatto sui redditi che una stima puntuale della Cgia di Mestre definisce “risibile”: nello scenario più favorevole, il vantaggio fiscale sarà di 172 euro su base annuale, pari a ben 14 euro mensili, per un lavoratore dipendente che percepisce 971 euro netti al mese. Per altri livelli di reddito, sopra o sotto questa cifra, i vantaggi oscillano tra irrisori o nulli per le fasce estreme.
Per contro, questo eccezionale risultato è ottenuto fra l’altro con un’operazione speculare sulle pensioni e sui contratti dei lavoratori pubblici.
Per le pensioni c’è un nuovo blocco totale dell’indicizzazione per tre anni, dal 2014 al 2016, per le pensioni superiori a sei volte il minimo (2972,6 euro), e un blocco parziale anche per quelle pari da tre a sei volte il minimo. Per i lavoratori pubblici c’è ancora il blocco dei contratti, che ha trasformato il pubblico impiego in un sicuro bancomat da cui prelevare a piacimento, e che è ormai diventato fisso dal 2009: calcolandolo comprensivo del 2014, ha provocato una perdita secca che varia a seconda delle fasce retributive, ma si può calcolare mediamente tra i 2416 euro degli ausiliari della scuola e i 21000 euro dei dirigenti degli enti pubblici non economici, passando per tutte le fasce intermedie. Cifre che converranno mai recuperate per espressa previsione di legge, e con l’aggravante del congelamento fino al 2017 dell’indennità di vacanza contrattuale (Il Sole 24 Ore, 21.10.13).
Inoltre, si intendono ridotte del 10% le spese per gli straordinari, e per chi va in pensione (sempre meno ormai) saranno raddoppiati i tempi di attesa per aver diritto alla liquidazione. Chi va in pensione non viene sostituito: nel 2014 il settore pubblico potrà assumere solo il 20% dei pensionati; per tornare ad assumere fino all’80% bisognerà aspettare il 2017.
Secondo Letta e i suoi sodali, in questo consiste la “fine del rigore”.
Aemme