In questi ultimi mesi i gruppi dirigenti dei maggiori partiti parlamentari e particolarmente quelli che hanno sostenuto il governo Letta, hanno reso evidente la gravità della crisi politica italiana.
Oggi il desolante spettacolo che si offre al pubblico è quello di un partito, quello di Berlusconi, che avrebbe dovuto essere il primo “partito liberale di massa” della storia italiana e che ha ridotto la propria azione politica ad una spasmodica ricerca di tutti i cavilli giuridici possibili e immaginabili per salvare il proprio leader dalle naturali conseguenze della condanna definitiva subita in appello e confermata in Cassazione. C'è ben poco di “liberale” nelle continue manifestazioni di servilismo personale, nella totale identificazione del Cavaliere con il partito, al punto di non metterne neppure più in conto la naturale, biologica mortalità, per non parlare della grottesca riproduzione del führerprinzip in ogni singolo passaggio dell'azione politica.
Del PD basta dire che col partito di Berlusconi ha deciso di condividere il potere e ne ha accettato tutti i ricatti. Un naufragio totale, che riguarda tutte le formule che si erano presentate negli ultimi anni come innovatrici e riformatrici del quadro politico e istituzionale e alle quali decisivi settori del grande capitale avevano guardato con un certo interesse. Certo, i grandi gruppi capitalistici non possono lamentarsi del governo delle larghe intese presieduto da Letta, così come non possono lamentarsi dei precedenti, per quanto riguarda la loro politica anti-operaia. Inoltre, esattamente come chi lo ha preceduto, il governo PD-PDL non si sogna nemmeno di prendere dai grandi profitti e dalle grandi rendite quello che servirebbe per garantire un livello decente di vita alla massa della popolazione. Resta il fatto che nei sogni della grande borghesia c'è sempre stato un sistema politico snello, poco costoso e in grado di mettere in pratica rapidamente le decisioni prese, specie in campo economico. Oltre che, naturalmente, un sistema giudiziario più rapido ed efficiente.
La storia è andata in un altro modo anche perché le pieghe dell'inefficienza politico-istituzionale hanno rappresentato lo specifico ambiente in cui la borghesia italiana è fiorita e ha messo solide radici.
Nel frattempo, mentre gli azzeccagarbugli prezzolati di Berlusconi invadono tutti gli schermi, torna a farsi sentire la diplomazia delle cannoniere in Siria, e la crisi economica, data per superata dai più ottimisti nel resto del mondo più industrializzato, continua a colpire duramente l'Italia.
L'ultimo rapporto dell'OCSE parla di un superamento della fase recessiva in quasi tutti i paesi europei. Ma l'Italia chiuderà l'anno con una diminuzione del Pil del 1,8%.
Nel resto d'Europa gli indici segnano qualche progresso ma la disoccupazione non diminuisce. In genere, gli economisti fissano in un tasso medio di crescita del 2% annuo la soglia perché la ripresa consenta di riassorbire la disoccupazione. Una ritmo di crescita ancora lontano dall'essere acquisito stabilmente, se mai potrà esserlo ancora.
Il perdurare della recessione in Italia rende ancora più drammatiche le condizioni sociali degli strati popolari. Una recente ricerca della Cgil ha individuato in nove milioni il numero di persone che compone l'”area di difficoltà”. Sono disoccupati, precari, scoraggiati, cassintegrati. Un numero impressionante e in continua crescita, sempre meno addomesticabile dalle promesse elettorali. La segretaria della Cgil commenta: “In gran parte del nostro Paese si vive in una condizione di miseria e non di povertà, di rassegnazione ed impossibilità di cambiamento”. Sì, ma non può durare in eterno questa rassegnazione.
Si accumulano le premesse sociali per grandi movimenti di protesta che potrebbero scuotere l'ordine sociale dalle fondamenta. Ma gli sviluppi e gli esiti di questi movimenti non andranno automaticamente, come ci piacerebbe, nella direzione del progresso sociale. Per farlo dovranno trovare sul loro cammino un'organizzazione politica rivoluzionaria già presente nei quartieri e nei posti di lavoro, almeno nelle città più importanti, un'organizzazione fatta di militanti riconosciuti e stimati e, per questo, ascoltati e in grado di orientare le lotte degli operai e dei disoccupati.
In caso contrario, se il perdurare della recessione e l'approfondirsi della crisi dei partiti politici attuali spingessero settori importanti della grande borghesia ad appoggiare formule di governo e movimenti politici più decisamente reazionari, la protesta popolare finirebbe per fornire la forza d'urto necessaria a questa operazione o il pretesto per realizzarla, o le due cose insieme.