Le amministrative del 26 e 27 maggio e, ancora di più, i ballottaggi, hanno visto una crescita ulteriore dell'astensionismo.
Chi dice di aver vinto ha in realtà perso di meno. Lo spiega benissimo il comunicato stampa dell'Istituto Cattaneo con una nota metodologica a fondo pagina: “In un contesto fortemente caratterizzato, come quello attuale, da sensibili incrementi dell'astensione, può succedere che una coalizione – nella percentuale sui voti validi – superi quella opposta non per un reale incremento dei suffragi, ma per il semplice motivo che ha perso meno voti degli avversari. L'analisi condotta sui voti assoluti permette invece di cogliere il fenomeno nella sua realtà, evidenziando, in un caso come quello delineato, due perdite, una delle quali tuttavia inferiore all'altra”.
Il Partito Democratico, uscito “vincitore” da questa consultazione, ha in realtà perso 243mila voti nei 16 comuni capoluogo dove si è votato, in rapporto alle politiche di tre mesi prima. In rapporto alle regionali del 2010 la perdita è più contenuta ma sempre significativa: 183.000 voti. Nel primo caso si tratta di una diminuzione del 39%, nel secondo del 32%.
Il Popolo delle Libertà ha avuto un tracollo del tutto analogo con una diminuzione rispettivamente del 40 e del 32 per cento.
La Lega di Maroni ha perso più del 50% dei voti rispetto alle politiche del 2013 e il 76% rispetto alle regionali 2010!
Una catastrofe paragonabile ha colpito il movimento di Beppe Grillo. Ha perso il 71% rispetto alle politiche e “solo” il 30% rispetto alle regionali 2010.
Le indagini sui flussi di voto mostrano che buona parte dell'emorragia di consensi ai “Cinque stelle” è finita nelle astensioni.
Come era successo appena qualche mese prima, l'aumento dell'astensionismo, arrivato a superare il 40% al primo turno e il 51% ai ballottaggi, è stato commentato con le solite considerazioni sconsolate sul “distacco della gente dalla politica”. Ma, se dobbiamo dire la verità, in giro non si è mai sentito parlare tanto di politica come in questi tempi. Il fatto che la “gente” non abbia fiducia nei partiti non significa necessariamente che si disinteressi della politica. La crisi spinge la “gente” a cercare delle risposte concrete ai propri problemi, il fatto che i partiti parlamentari si rivelino sempre di più i componenti di un sistema che non da risposte, spinge la popolazione ad esprimere il proprio disprezzo con il non voto. Anche l'astensionismo di massa, dunque, è un atto politico. Almeno lo è in una sua componente importante.
I rappresentanti della politica “ufficiale” fingono di dolersi per la “disaffezione” del popolo al meccanismo elettorale, ma la cosa principale per loro è calcolare la percentuale di consensi che può consentire loro di continuare a ricevere un lauto stipendio e mantenere una posizione di potere. Se anche rimanessero mille elettori in tutto, da questo punto di vista non cambierebbe niente per loro.
Ma le elezioni sono un importante termometro sociale, per quanto imperfetto. E l'aumento delle astensioni dice qualche cosa di non molto gradevole per le classi dominanti.
Nella primavera dell'anno scorso, l'ACLI, associazione dei lavoratori cattolici, promosse un sondaggio tra i propri iscritti e simpatizzanti. Risultò che il 75% degli intervistati riteneva che la crisi la devono pagare i ricchi. Il 37% sosteneva che dalla situazione attuale si può uscire solo attraverso una rivoluzione.
Questo è il clima: la gente comune, in grandissima parte lavoratori, disoccupati e pensionati, non crede alla politica che è al servizio dei ricchi. Sente il bisogno di una forza che difenda coraggiosamente gli interessi delle classi sfruttate, anche propugnando cambiamenti radicali nella società. Per questa politica ci sarebbe spazio. Bisogna trovare più uomini e più donne che abbiano l'entusiasmo, la volontà e la tenacia per gettarne le basi.
R.Corsini