Forse era la millesima o la decimillesima volta che la polizia turca interveniva contro manifestanti e usava i soliti mezzi. Giovedì 30 e venerdì 31 maggio quelli che manifestavano contro la costruzione di un centro commerciale al posto del Gezi Park, vicino alla piazza Taksim nel cuore di Istanbul, hanno subito assalti feroci. Gli idranti, i lacrimogeni, i gas e soprattutto le manganellate selvagge li avrebbero dovuto rimandare a casa, e scoraggiare chiunque di raggiungerli. Ma ecco, questa volta non è andata così.
La brutalità della polizia ha solo aumentato la rabbia dei manifestanti e il loro numero. Numerosi giovani e lavoratori sono venuti da tutti i quartieri di questa immensa metropoli di 15 milioni di abitanti. Hanno ingrossato le file degli oppositori al taglio degli alberi storici del Gezi Park che nel bel mezzo di Istanbul offrono la loro ombra ma che dovevano lasciare il posto davanti alla speculazione immobiliare alimentata dagli amici del primo ministro.
Quindi la battaglia ha continuato ma la violenza della polizia è risultata impotente davanti al sempre crescente numero dei manifestanti che per proteggersi hanno costruito barricate. Lo scontro è divenuto una contestazione che va ben oltre la questione degli alberi del parco e riguarda i metodi del potere politico. Sabato 1° giugno il governo ha dovuto fare un passo indietro ordinando alla polizia di ritirarsi dalla piazza, che è stata occupata da una folla ancora più numerosa che scandiva lo slogan “governo, dimissioni!”. Altri manifestanti sono scesi nelle piazze di altri quartieri di Istanbul, ma anche della capitale Ankara, di Smirne e di numerose città grandi e piccole.
Erdogan prima ha finto l'indifferenza, partendo in viaggio nei paesi del Magreb e affermando che i manifestanti erano solo un pugno, strumentalizzati da estremisti e da mani straniere, o addirittura “terroristi”. Ma al suo ritorno ha ritrovato le stesse masse molto decise e ha alternato le concessioni verbali e il ricorso alla repressione. L’11 giugno la sua polizia ha sgomberato la piazza Taksim e il 15 giugno è intervenuta brutalmente contro i manifestanti che ancora occupavano il Gezi Park, mentre Erdogan prometteva di rispettare le decisioni di giustizia rispetto al suo progetto immobiliare. Contemporaneamente la polizia interveniva contro tutti quelli che solidarizzavano con la protesta di piazza Taksim, sia negli altri quartieri di Istanbul che nelle altre città della Turchia.
Qualunque sia ormai la sorte degli alberi di Gezi Park, adesso il problema è un altro. La reazione alla violenza della polizia ha preso un carattere politico, di contestazione del regime del partito del primo ministro, l’AKP. Certamente il partito ha vinto tre elezioni successive, in parte grazie alla situazione favorevole della Turchia e alla sua crescita economica. Ma dopo la cautela iniziale Erdogan ostenta sempre più il suo fondamentalismo religioso, vuole limitare le vendite pubbliche di alcol, condanna l'aborto come un assassinio, moltiplica gli arresti e impiega metodi violenti contro tutte le manifestazioni. Molti non sopportano più questo ricorso permanente alla repressione, il disprezzo di Erdogan per la popolazione, i suoi affari, i tentativi di imporre il suo ordine morale per fare piacere alle sette reazionarie che lo sostengono. E questa opposizione non si limita ai fautori del partito socialdemocratico CHP, concorrente dell'AKP che si riferisce alla tradizione laica del kemalismo e vorrebbe servirsi dell'attuale movimento.
Per i lavoratori, per i giovani, il problema è anche l'onnipotenza del padronato, lo sfruttamento, la durezza della vita quotidiana nonostante le prodezze economiche di cui si vanta Erdogan. Questo movimento li incoraggerà a lottare, qualunque siano le bravate del primo ministro e la violenza della sua polizia. Questa specie di '68 che conosce la Turchia lascerà tracce profonde. Tra quelli che si sono mobilitati, molti non si accontenteranno di una confusa prospettiva di cambio politico alla testa dello Stato. Un tale movimento insegna ben più di molti discorsi. I suoi partecipanti hanno potuto misurare nelle piazze di Istanbul e delle altre città la forza dei loro sentimenti e il loro numero. Possono anche imparare come si vince, non solo contro i poliziotti di piazza Taksim, ma contro la borghesia e il suo potere.
A.F.